Di lotta e di governo, l’avremmo definito se fosse italiano. Ma è talebano, il nuovo governo dell’Afghanistan, e quindi i termini vanno adattati. Di terrorismo (tanto) e di trattativa (pochina) forse potrebbe andare. Dopo giorni di meditazioni e di patteggiamenti tra le fazioni, Zabihullah Mujahid, portavoce del nuovo regime di Kabul, ha annunciato che la compagine governativa (“provvisoria”, si badi bene) sarà guidata dal mullah Muhammed Hasan Akhund, un signore che da lungo tempo ha il suo bel posto nella lista Onu dei “terroristi o associati a terroristi”. Al suo fianco Abdul Ghani Baradar, uno dei fondatori del movimento talebano, l’uomo che per anni ha trattato con gli americani a Doha, la mente politica del gruppo. Alla Difesa Muhammed Yaqoob, figlio del famoso Mullah Omar, giovane comandante delle milizie talebane. Agli Interni Sirajuddin Haqqani, per lungo tempo guerrigliero, specialista degli ordigni esplosivi sul ciglio della strada (una vocazione di famiglia: suo padre, Jalaluddin Haqqani, introdusse in Afghanistan la pratica delle auto-bomba), uno che gira con sul capo una taglia di 5 milioni di dollari dell’Fbi, che fatica a perdonargli i soldati Usa uccisi o mutilati nei suoi agguati. E poi gli spiccioli: Hidayatullah Badri come ministro delle Finanze, Shaykhullah Munir all’Istruzione, Khalil-ur-Rehman Haqqani ministro dei Rifugiati.
Ora, scandalizzarsi è giusto ma non oltre una certa misura. Non sono questi gli uomini con cui gli Usa, con l’approvazione più o meno tacita di una lunga serie di altri Paesi, hanno trattato per togliersi dal pantano afghano? Non sono quelli che, proprio sedendoci al tavolo con loro, abbiamo riconosciuto come interlocutori e, quindi, abbiamo legittimato? Adesso non resta che provare a capire che cosa potrà succedere ancora, mentre a Kabul non cessano le proteste delle donne, i talebani le disperdono a bastonate e il nuovo premier, Muhammed Hasan Akund, appena insediato apre bocca per invocare l’applicazione della shari’a.
È proprio alla figura di Akund che dobbiamo rivolgerci. È originario di Kandahar, come il Mullah Omar del quale fu uno dei più ascoltati consiglieri, ma soprattutto come Ahmad Shah Durrani, figura mitica tra i pashtun e antenato dello stesso Akund. Chi era Durrani (da durr-i-durran, perla delle perle)? Nientemeno che un soldato, poi generale e infine re, che nella prima metà del Settecento passò di vittoria in vittoria fino a diventare il fondatore dell’Afghanistan moderno. Il suo pro-pro-pro nipote Akund non rischia certo di ottenere pari gloria ma è piuttosto noto, tra i talebani, per aver fondato e guidato la Rahbari Shura (il Consiglio dei Capi) detta anche la Shura di Quetta (in Pakistan, capoluogo del Belucistan), ovvero l’organismo che, dopo l’invasione americana del 2001 e la conseguente rotta talebana, impedì che il movimento islamista andasse in mille pezzi e sparisse. Per questo Haibatullah Akunzada, l’attuale leader supremo dei talebani, lo stima e si fida di lui.
Tutto questo, però, ci dice un’altra cosa, la più importante. E cioè, che questo primo Governo dei talebani 2.0 rivendica a tutta forza e con grande orgoglio la derivazione diretta dai talebani di una volta, quelli che tra il 1996 e il 2001 bloccarono l’infinita guerra civile solo per precipitare le macerie dell’Afghanistan in una edizione riveduta e corretta in peggio del più buio medioevo. Per averne conferma basta osservare qualche altro dato. Non c’è nessuna donna nel Governo (ma sul serio ce ne aspettavamo?). I due ministri più giovani, i trentenni Muhammed Yaqoob e Sirajuddin Haqqani, si sono fatti le ossa sul campo ma soprattutto vengono da due schiatte di provata fede talebana, dall’aristocrazia del movimento. E quasi tutti gli altri ebbero incarichi di Governo, più o meno secondari, già all’epoca dei primi talebani.
È un segnale preciso, rivolto al mondo ma soprattutto a quasi 40 milioni di afghani che, come sappiamo, non sono tutti felicissimi di questo “talebani 2 – la vendetta” e qua e là rischiano la vita per farlo sapere, manifestando nelle grandi città. E il messaggio è: non siamo un’altra cosa, una roba nuova, siamo quelli di quella volta là e siamo tornati.
Dobbiamo quindi dedurre che questi nuovi talebani riprenderanno le strategie di quelli vecchi? Che si isoleranno dal mondo? Che trasformeranno l’Afghanistan in un santuario del terrorismo islamista e in una base di lancio di attentati nei cinque continenti? Che cercheranno di imporre alla popolazione una versione dell’islam così chiusa ed estrema da non sembrare più una religione ma solo una serie infinita di punizioni e mortificazioni? È presto per lanciarsi in previsioni dettate solo dal desiderio di “stare sul pezzo”. Sulla base di qualche esperienza e a naso, come se fosse una scommessa, diremmo di no. Troppe condizioni sono mutate rispetto al 1996-2001, sia in Afghanistan sia fuori. E questi vent’anni non sono passati invano, nemmeno per i talebani, che hanno avuto tempo e modo per meditare sui vecchi errori.
Potrà cambiare l’abito, dunque. Ma la stoffa, come la natura di questo Governo pieno di reduci del tempo andato dimostra, è sempre quella. E d’altra parte, perché i talebani avrebbero dovuto cambiarla? Una sola cosa infatti è certa, soprattutto a occhi afghani: alla fine della fiera hanno vinto loro.