È stato pubblicato qualche giorno fa il Global Risks Report 2017, ovvero il rapporto annuale sui rischi globali a cura del World Economic Forum. Si tratta di dati che consentono di analizzare questioni di rilevanza centrale, troppo spesso assenti nell'agenda politica internazionale.
Il report analizza i “rischi globali” e le tendenze che ne amplificano o ne contengono gli effetti, distinguendo 5 campi di azione (economia, ambiente, geopolitica, società e sviluppo tecnologico), che danno luogo a 5 sfide globali che l’umanità deve essere in grado di affrontare e vincere: crescita economica e riforme strutturali del sistema di produzione, distribuzione e consumo; cambiamenti sociali e gap generazionale, con i loro legami con le nuove forme della partecipazione politica e della diffusione delle informazioni; gestione della nuova “disruption” tecnologica, in particolare per quel che riguarda i cambiamenti nel mondo del lavoro dovuti all’automazione; rafforzamento della cooperazione tra gli Stati, nell’ottica del disarmo, della sicurezza collettiva e della lotta ai traffici illeciti; azione per contrastare i cambiamenti climatici, con un focus particolare sul riscaldamento globale.
Prima di analizzare le conclusioni cui giunge il rapporto, può essere interessante considerare la "classifica" dei rischi globali, emersa dal contributo di circa 750 studiosi e dall'analisi di dati e di una mole considerevole di documenti. Il report del WEF li suddivide per "impatto" e "probabilità":
Il peso dei fattori politici e sociali
Una parte centrale del report è dedicata all'ambito sociale e politico e in particolare al governo dei processi di trasformazione e cambiamento degli ultimi anni. L’analisi parte dalla consapevolezza dell’interconnessione di una serie di fattori di rischio, che appaiono legati a doppio filo gli uni con gli altri. Disoccupazione e sottoccupazione, ad esempio, determinano profondi mutamenti (e tensioni) sociali, possono avere effetti sulla stabilità degli stati nazionali e sono legate alle migrazioni su larga scala; queste ultime dipendono a loro volta anche dai cambiamenti climatici e dalle condizioni di vita in alcune aree del globo (crisi umanitarie, politiche, conflitti, eccetera) e possono portare anche a conflitti regionali o interregionali. C’è, insomma, una connessione profonda fra i fattori di rischio e l’approccio globale è l’unica chiave per incidere in processi in atto, tanto più in un momento in cui “in molti paesi stanno prendendo il centro della scena polarizzazioni politiche e contrasti generazionali e culturali”.
Anche in questo caso, però, non si può che partire dal dato “economico”. In effetti, si legge nel report, malgrado negli anni precedenti molte zone del pianeta abbiano vissuto in livelli di pace e prosperità “senza precedenti”, la lunga coda della crisi economica ha prodotto un malessere che è sfociato nella critica all’establishment e alla globalizzazione, lasciando campo libero alle forze populiste e anti – sistema. Il punto è che alla base c’è una crescita squilibrata, in particolare per quel che concerne la distribuzione del reddito: negli anni a cavallo fra il 2009 e il 2012, solo negli USA, il reddito dell’1% della popolazione è cresciuto del 31%, quello del 99% della popolazione solo dello 0,5%. Per i prossimi dieci anni, spiega il WEF, la disuguaglianza sarà vista come il problema maggiore, anche per le sue interconnessioni con gli altri fattori di rischio globale. Si legge nel report:
La combinazione di disuguaglianza economica e polarizzazione politica rischia di amplificare i rischi globali, sfilacciando il modello di solidarietà sociale su cui si fonda la legittimità dei nostri sistemi economici e politici. Nuovi sistemi economici e diversi paradigmi politici sembrano urgentemente necessari per affrontare le matrici della disillusione popolare.
Ed è finanche paradossale che sia proprio il WEF a spiegare come “molti partiti politici tradizionali sono mal equipaggiati per rispondere alle istanze degli elettori, perché si limitano a porre enfasi sulla cultura e sui valori, dopo essersi spostati verso il centro dello scenario politico e aver abbracciato una visione gestionale e tecnocratica della politica”. Una visione che non è molto distante dalla critica “da sinistra” al sistema tradizionale, che nota nella trasformazione della politica in “gestione amministrativa” il limite principale dei partiti che hanno guidato le democrazie occidentali negli ultimi anni e che ora sembrano impotenti di fronte “all’avanzata populista”.
Come si evince dalla terza parte del rapporto, ripensare il governo dei processi politici appare essenziale anche alla luce della nuova "disruption tecnologica", destinata a produrre un terremoto nel sistema dei rapporti di produzione e consumo. L'automazione, per esempio, determinerà una nuova ondata "potenziale" di disoccupazione, con un numero sempre più ampio di attività e lavori che sarà svolto dalle macchine, che può avere effetti devastanti senza un cambio di paradigma, che sposti l'accento sulla formazione, sull'istruzione, ma parallelamente anche sul sostegno al reddito.