“I nostri figli prigionieri in un campo di concentramento in Cina”: il grido di due genitori Uiguri
La storia di Mihriban Kader e Mamtinin Albikim è una storia che ne racchiude un milione di altre. Quella di tutti i Davide che combattono contro Golia e di tutti i genitori che lottano per riabbracciare i loro figli, sottratti ingiustamente. La coppia di etnia uigura è rifugiata in Italia dal 2016 a causa delle gravi persecuzioni da parte della Cina nei confronti degli Uiguri. Questi ultimi sono una popolazione di lingua turca e religione musulmana stanziata nell'ex Turkestan Orientale (attuale Xingiang), a Nord-Ovest della Cina.
Da 70 anni il governo centrale di Pechino porta avanti una politica di vessazione nei confronti delle minoranze – e in particolare degli Uiguri – che negli ultimi tempi si è tradotta in un vero e proprio fenomeno di deportazione di massa. La più grande, pare, dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Tra gli 1,8 ed i 3 milioni di Uiguri si trovano attualmente internati in campi di prigionia, costretti ai lavori forzati, rieducati, torturati in alcuni casi fino alla morte. I 4 figli di Mihriban e Mamtinin Albikim fanno parte di questa immensa folla di prigionieri del Partito Popolare Cinese. I due genitori, residenti nel Lazio, si rivolgono al governo italiano e al Ministero degli Esteri chiedendo di aiutarli a portare in Italia i loro ragazzi, tramite il ricongiungimento familiare.
Deportati
Mihriban e suo marito sono venuti a vivere in Italia come rifugiati nel 2016, portando con sè 3 dei loro 7 figli. "Non potevamo più restare nello Xinjiang, era troppo pericoloso per noi, che avevamo molti più figli di quanto fosse consentito" (la politica del Figlio Unico in Cina è applicata in modo particolarmente rigido sulla minoranza uigura, n.d.r.). Nel 2020, dato il continuo peggioramento della situazione degli Uiguri nello Xinjiang ed in seguito ad una serie di minacce, la coppia decide di far venire i 4 figli (due ragazzi e due ragazze tra i 12 ed i 16 anni) in Italia. Dalla Prefettura di Kashgar, nell'ovest dello Xinjiang, i giovani riescono a percorrere 5mila km per giungere fino a Shangai, con l'obiettivo di ottenere il visto per l'Italia. Giunti al Consolato Generale, però, qualcosa va storto. I giovani vengono rifiutati e viene loro detto di andare all'Ambasciata di Pechino. Mentre stanno facendo ritorno all'Hotel, però, i piccoli vengono catturati dalla polizia: è l'inizio di un incubo, tanto per loro quanto per i loro genitori, che dall'Italia non si danno pace e lottano ogni giorno per riavere i loro figli.
I 4 ragazzi sono stati portati in un "orfanotrofio" nel Kashgar. In realtà, si tratta di uno dei tanti campi di concentramento riservati alle minoranze in Cina, dove gli Uiguri sono costretti ai lavori forzati. Basti pensare che più del 20% del cotone prodotto su scala mondiale è frutto del lavoro forzato degli Uiguri.
Per capire la storia di Mireban e della sua famiglia non si può prescindere dal quadro generale – storico, culturale, economico e politico – che fa da contesto a questa vicenda. L'ex Turkestan orientale è stato dichiarato territorio facente parte della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, quando quell'area popolata da un crogiolo di diverse etnie venne ribattezzata "Xinjiang", che in cinese significa "Nuova Frontiera". Fu in questa terra, che oggi si trova in un punto altamente strategico della Via della Seta e che confina con ben 9 Stati tra cui la Russia, che Marco Polo giunse quando mise piede per la prima volta in Cina. Tra tutte le etnie che la abitano, quella degli Uiguri costituisce la fetta più consistente. Dal 1949 il governo cinese ha sempre adottato politiche repressive nei confronti delle minoranze dello Xinjiang, orientando i propri sforzi a una strategia di assimilazione simile a quella messa in atto, in tempi più recenti, verso Hong Kong. I circa 12 milioni di uiguri che abitano l'ex Turkestan orientale, però, hanno sempre rifiutato di rinunciare alle loro tradizioni culturali e religiose, che li distinguono nettamente dalla maggioranza cinese. La resistenza ha dato adito ad attriti che nel tempo si sono esacerbati, sfociando in un vero e proprio genocidio da parte di Pechino, con deportazioni di massa in campi concentramento, lavori forzati, sterilizzazioni coatte delle donne e svariati tipi di abusi fisici e psicologici.
"Genocidio"
Secondo la definizione ufficiale delle Nazioni Unite, per "genocidio" si intende "una serie di atti perpetrati allo scopo di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”. Questi atti, che possono essere considerati “principi di individuazione” del genocidio sono cinque:
- Uccisione di membri del gruppo
- Lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo
- Il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale
- Misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo
- Trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro
Rispetto a questa definizione è sufficiente che uno solo dei cinque punti sia riscontrabile per parlare di "genocidio": nella fattispecie uigura, stando a diverse fonti autorevoli tra cui il Presidente del Congresso Mondiale degli Uiguri Dolkun Isa, si darebbero addirittura tutte e cinque le circostanze. "Da 70 anni il governo cinese si adopera per cancellare la minoranza etnica uigura dal territorio dello Xinjiang – dichiara Dolkun Isa in collegamento video dalla Germania – ma dal 2016, sotto l'impulso del Presidente Xi Jinping, la repressione si è esacerbata, il numero di campi di concentramento è aumentato esponenzialmente, così come il numero di deportati". Deportati che attualmente potrebbero essere addirittura 3 milioni stando alle ultime stime.
Per diverse ragioni è molto difficile stabilire con esattezza quanti campi di prigionia esistano nella regione dello Xinjiang. Pechino si serve infatti di sofisticati sistemi di sicurezza per oscurare la posizione di luoghi sensibili dalle riprese satellitari. Un'inchiesta di BuzzFeed pubblicata ad agosto 2020 ha rivelato centinaia di "macchie" nella mappatura della regione dello Xinjiang. E' presumibile che in corrispondenza di alcune di queste (probabilmente la maggior parte) si trovino dei campi di concentramento. Si tratta di enormi strutture protette da filo spinato e circondate da telecamere all'interno delle quali gli Uiguri verrebbero "rieducati", in realtà torturati sia psicologicamente che fisicamente, in alcuni casi fino alla morte.
Fino al 2018, Pechino ha sempre negato l'esistenza di queste prigioni. In seguito a una serie di inchieste di prestigiose testate giornalistiche internazionali e di ONG, il governo ha ammesso che ci sono delle strutture per le minoranze, precisando però che si tratterebbe di "centri di formazione professionale e/o di rieducazione". Ma le testimonianze dei sopravvissuti e dei parenti dei deportati raccontano una realtà molto diversa.
Sanzioni
Il 22 marzo 2021 l'Unione Europea – unitamente a USA, Canada e Regno Unito – ha sanzionato la Cina per violazioni contro i diritti umani fondamentali. Nella Black List dell'UE ci sono quattro esponenti del "programma detenzione uiguri", ossia: l'ex vicecapo della tredicesima Assemblea del popolo della regione (dal 2016 al 2019), Zhu Hailun, responsabile di un programma di sorveglianza, detenzione e indottrinamento su larga scala rivolto agli uiguri e a persone di altre minoranze etniche musulmane. Zhu Hailun, in particolare, è stato descritto come l'"architetto" di questo programma. Si legge sulla Gazzetta ufficiale Ue. Nell'elenco dei sanzionati anche il segretario della Production and Construction Corps (Xpcc), organizzazione economica e paramilitare statale dello Xinjiang, ritenuto responsabile del ricorso sistematico, da parte dell'XPCC, a uiguri e persone di altre minoranze etniche musulmane come manodopera forzata, in particolare nei campi di cotone. Si aggiungono a questi il segretario del comitato per gli affari politici e giuridici dello Xinjiang dal settembre 2020, Wang Mingshan, oltre al direttore dell'ufficio per la pubblica sicurezza dello Xinjiang, Chen Mingguo.