Haiti, a due anni dal terremoto ancora colera e devastazione
La povertà c'era già ed era sufficiente a rendere la situazione allarmante; poi arrivò il terremoto con il suo carico di morte e devastazione a rendere catastrofiche le condizioni di Haiti. Non è mai stato possibile né stilare un bilancio effettivo dei danni materiali, né conoscere con precisione il numero delle vittime, che comunque superarono le 220 000 unità; molti sono rimasti invalidi per sempre, un milione e duecentomila furono i senzatetto. Poi è arrivato il colera, pochi mesi dopo: settemila i morti per l'epidemia, più di mezzo milione i contagiati. Fonti locali, già da diverso tempo, sostengono che l'infezione sarebbe stata portata dai caschi blu nepalesi della missione Minustah, giunti sull'isola per prestare soccorso ai disperati sopravvissuti.
Una situazione drammatica a cui si sono sommate le tensioni, con un quadro politico instabile e le Nazioni Unite ancora presenti sul territorio ma sempre meno volute dai locali. Qualche mese fa, il Senato stesso chiedeva il ritiro entro tre anni delle truppe umanitarie; a scatenare l'indignazione aveva contribuito la diffusione di un video che mostrava quattro soldati ONU aggredire ed umiliare sessualmente un ragazzino di 18 anni; i presunti responsabili, di origine uruguaiana, erano stati denunciati per reati penali, ma le accuse di abusi sessuali su minori sono assai frequenti da quando i caschi blu sono arrivati ad Haiti. E, nel frattempo, la ricostruzione tarda ad iniziare.
A distanza di due anni, ancora 500 000 persone vivono nelle tende che furono allestite in campi che dovevano essere provvisori. Senza dubbio, le precarie condizioni igieniche delle tendopoli incidono profondamente sulla situazione sanitaria: secondo recenti valutazioni, solo il 2% della popolazione riesce ad avere accesso all'acqua potabile, fattore che contribuisce grandemente alla diffusione delle epidemie. Lo stato in cui versa Haiti è ancora di piena emergenza, quasi come se il lo sfacelo di quel terremoto di magnitudo sette avesse colpito Port-au-Prince non più di due mesi fa.
Eppure non si può non ricordare la mobilitazione internazionale che, da subito, ha risposto all'urlo di disperazione di quella popolazione distrutta: alla volta dello stato dell'isola di Hispaniola sono partiti fondi che dovevano sì aiutare a fronteggiare l'emergenza, ma anche sostenere l'economia locale in vista di una ricostruzione. Non c'è da stupirsi, dunque, se gli haitiani stanno iniziando a chiedersi che fine abbiano fatto quei soldi, dove siano arrivati.
Se da un lato è vero che una parte consistente del denaro promesso da molti paesi non è stato realmente ancora messo a disposizione, molti soldi non sono stati proprio spesi, pur essendo già utilizzabili. Il problema principale è che, relativamente ad i fondi di tutti i paesi donatori, solo nell'1% dei casi questi sono stati destinati al governo haitiano: nella sostanza, le istituzioni, assieme alle piccole compagnie e alle organizzazioni non governative locali, sono state totalmente bypassate dalla Comunità Internazionale in favore di ONG straniere.
Bill Quigley, docente alla Loyola University di New Orleans, rileva in un recente articolo che, paradossalmente, i più grandi beneficiari dei soldi che dovevano andare ad Haiti sono stati i paesi donatori stessi. Il denaro è rimasto strettamente ancorato nei circuiti delle grandi nazioni e, a questo punto, c'è da immaginare che difficilmente diventerà risorsa nelle mani esclusive degli haitiani: si direbbe quasi un nuovo colonialismo, mascherato meglio ma pur sempre indissolubilmente legato al destino degli ultimi su questa terra.