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Guerra all’Isis: a combatterla sono i curdi

Il G20 si è riunito in Turchia dove il governo Erdogan bersaglia la resistenza curda che combatte in prima linea l’Isis. Le contraddizioni di un occidente che piange i morti di Parigi e subisce lo scontro tra le potenze islamiche interessate ai dollari del petrolio piuttosto che alla guerra al califfato nero.
A cura di Antonio Musella
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"Non è accettabile che un paese membro della NATO come la Turchia combatta sistematicamente i curdi, la priorità oggi è l'Isis". Parole di Massimo D'Alema, ex presidente del consiglio, Ministro degli Esteri, "un uomo delle istituzioni" come si diceva un tempo. Un commento che è arrivato il giorno prima dell'apertura del vertice del G20 in Turchia, dove il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha accolto i capi di governo dei venti paesi più importanti al mondo. Lo stesso Erdogan che è impegnato in un'azione militare costante tesa a colpire la resistenza curda che, a sua volta, combatte contro l'Isis. Una contraddizione gigantesca che rappresenta nel modo più lampante lo scacchiere internazionale alla luce degli attacchi terroristici di Parigi.

La guerra di Erdogan

Chi combatte oggi l'Isis sul campo? Chi sta rispondendo colpo su colpo alla barbarie del califfato? È il popolo curdo, con gli eserciti della resistenza del YPG e della guerrigliere del YPJ. La lotta dei curdi è una battaglia laica di una comunità prevalentemente musulmana contro la follia dell'estremismo islamico, una battaglia di democrazia contro la dittatura del califfato nero, una battaglia che trova sintesi nell'esperienza del "Confederalismo democratico" della Rojava, una regione ai confini tra Turchia e Siria, liberata dai curdi e che oggi è la prima linea della guerra all'Isis. Una comunità che si determina intorno ai capisaldi della libertà, del rispetto per l'ambiente e per la diversità di genere.

La priorità politica del governo Erdogan, riconfermato recentemente dopo una tornata elettorale molto discussa su cui aleggia il sospetto dei brogli e che è stata caratterizzata dalla repressione anti curda, sembra essere quella di schiacciare la comunità curda. Formalmente il governo turco ha schierato i militari al confine con la Siria ed ha avviato da lungo tempo i bombardamenti aerei, dichiarando di voler colpire le milizie dell'Isis. Ma le azioni militari di Erdogan colpiscono principalmente le truppe di resistenza curde non solo ai confini con la Siria, come nella zona della Rojava, ma anche in Iraq e nella stessa regione del Kurdistan in Turchia. L'8 ed il il 9 settembre scorso, gruppi di nazionalisti turchi vicini al partito di Erdogan hanno assaltato simultaneamente le sedi del partito curdo dell'HDP in tutto il paese: oltre 300 tra sedi politiche, librerie e redazioni di organi di informazione ritenuti "non allineati" sono state colpite dalla violenza nazionalista.

Contemporaneamente l'esercito di Erdogan attaccava le basi della resistenza curda in Iraq, le stesse basi da cui partono i guerriglieri anti-Isis. Un vero e proprio pogrom che ha portato alle stelle la tensione nel paese durante la campagna elettorale che ha visto la riconferma di Erdogan alla guida le paese in un clima di terrore, ed ha visto l'HDP, nonostante la repressione, raccogliere 60 seggi al parlamento. In quel paese il G20 è andato a discutere dello scenario mondiale dopo gli attentati di Parigi interrogandosi su come combattere l'Isis. Sostenere la resistenza curda nella guerra all'Isis ed impedire che il governo turco, membro della NATO, continui a massacrare il popolo curdo, sarebbe un primo passo ragionevole per le potenze mondiali che oggi piangono i morti di Parigi.

Le monarchie del petrolio

Ma il conflitto in Medio Oriente vede protagoniste anche le monarchie del petrolio come l'Arabia Saudita ed il Qatar, interessate al rovesciamento di Bashar al Assad in Siria piuttosto che a combattere davvero l'Isis. Il crollo definitivo della dittatura di Assad permetterebbe l'allargamento dell'influenza delle monarchie islamiche sugli interessi petroliferi, un interesse che si sposa bene (evidentemente) con la guerra ai curdi di Erdogan.
Insomma nello scacchiere in campo in Medio Oriente il califfato nero sembra essere un problema marginale per le potenze in campo, proprio per questo il sostegno alla resistenza curda rappresenta il terreno più laico del conflitto fuori dagli interessi delle monarchie del petrolio e dei governi a trazione religiosa. Il conto di questo scontro arriva oggi in Europa con gli attacchi di Parigi, in un occidente che non è esente da colpe rispetto all'ascesa dei terroristi.

Le responsabilità degli Usa

L'Isis, infatti,  è una creatura politica e militare che ha avuto genesi con l'invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti ed ha avuto una funzione anti Saddam preziosa per le potenze occidentali. Proprio in questi giorni negli Usa c'è chi lo ricorda come Barnie Sanders candidato alle primarie dei democratici contro Hillary Clinton per la sfida alla successione di Barak Obama. "L'invasione dell'Iraq ha segnato l'inizio del caos mediorientale che ha portato alla nascita dell'Isis" ha detto Sanders ricordando il voto favorevole dei democratici all'invasione dell'Iraq voluto da George W. Bush. Oggi le potenze mondiali pagano il prezzo dei loro affari, "l'Isis nasce dall'odio di Guantanamo mescolato alla puzza dei dollari del petrolio" ha ricordato Francesco Piccinini. L'Isis è una bestia che è dilagata in Siria, in Iraq, in Libia ed ora esplode in Europa. Una bestia che l'occidente non ha mai disprezzato davvero.

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