Guerra all’Is, ecco quali sono i paesi del Golfo in prima linea contro il terrorismo
La battaglia contro l'Is potrà essere vinta solo grazie al coinvolgimento delle nazioni del golfo persico. Questo, sintesi, è quanto emerge dall'ultima operazione militare antiterroristica portata avanti nelle scorse ore dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti d'America e che, nelle scorse settimane, aveva visto il coinvolgimento a vario titolo di un gran numero di paesi europei (Germania ed Italia, ad esempio, hanno deciso di inviare armi ed equipaggiamenti in Iraq per contrastare l'Is – ovvero lo Stato Islamico, noto anche con le sigle di Isis e Isil –, mentre la Francia ha iniziato come Washington a colpire direttamente gli obiettivi militari).
La novità relativa all'operazione militare anti Is lanciata in Siria riguarda il coinvolgimento attivo degli stati del golfo persico che, questa volta, non concederanno unicamente le basi aeree per i cacciabombardieri dell'alleanza, ma parteciperanno attivamente alle operazioni militari e, soprattutto, a costruiranno una sorta di cordone sanitario che blocchi la diffusione del dettato estremista e inizi a tagliarne le linfe vitali: ovvero gli approvvigionamenti economici e militari.
I raid aerei contro l'Is
I raid aerei condotti dall'aeronautica militare nordamericana in Siria (che hanno visto la partecipazione di varie unità di combattimento quali i bombardieri B-1, caccia F-18 e F-16, droni MQ-1 Predator e missili da crociera Tomahawk lanciati dal cacciatorpediniere USS Arleigh Burke), hanno colpito per un'ora e mezza circa cinquanta obiettivi individuati nelle zone di Raqqa e Deir al-Zor, località site a 400 chilometri a Est di Damasco. Durante le operazioni, iniziate alle 2.30 ora italiana, le forze Usa hanno anche colpito le aree occupate dai militanti qaedisti fedeli ad al-Nusra, presenti nella zona di Aleppo e Idlib nel Nord del paese (il Pentagono ha comunicato che i bombardamenti nel Nord della Siria sono stati eseguito esclusivamente dalle forze aeree di Washington al fine di “eliminare l'imminente minaccia verso obiettivi Statunitensi ed Occidentali” posta dai miliziani un tempo sodali di Osama bin Laden, che nel frattempo hanno stabilito “in Siria un centro di addestramento e pianificazione per attacchi esterni, attraverso la costruzione e l'utilizzo di esplosivi e il reclutamento di cittadini occidentali per le operazioni terroriste”).
Le operazioni hanno visto la partecipazione di Baharain, Qatar, Arabia Saudita, Giordania e degli Emirati arabi uniti. Nello specifico al momento solo la Giordania ha confermato ufficialmente di aver preso parte attiva ai raid aerei, mentre gli altri stati hanno fornito prevalentemente supporto logistico.
L'operazione siriana
L'inizio delle operazioni in Siria dopo quelle avvenute in Iraq nelle settimane precedenti e come preannunciato dal Presidente Usa Barak Obama, segna l'allargamento dello sforzo bellico in Medio Oriente e il cambiamento della strategia antiterroristica. I paesi che compongono il Consiglio di Cooperazione del Golfo (d'ora in poi Ccg, unione che include Egitto, Libano, Libia, Iraq, gli Usa, Francia e Regno Unito) giocheranno il ruolo di punta nel contrasto alle forze terroristiche e, come emerge dal cosiddetto Comunicato di Jeddah sottoscritto dai paesi componenti del Ccg, attraverso la volontà di contrastare, per la prima volta ed apertamente, la crescita e l'espansione dello stato fondamentalista guidato da al-Baghdadi.
I paesi del Ccg garantiranno non solo l'utilizzo delle strutture militari in Qatar, Kuwait e Baharain (anche se si ritene che solo la Giordania e l'Arabia Saudita possa ricoprire un ruolo attivo nel portare avanti i bombardamenti), ma “ricopriranno anche un ruolo primario in altre operazioni – ha affermato al periodico specializzato DefenseNews Theodore Karasik, direttore dell'Istituto di Ricerca Near East and Gulf Military Analysis –, incluso l'acquisizione di informazioni, la guerra economica alle organizzazioni terroriste, in particolare le donazioni provenienti da Kuwait, Qatar, Arabia Saudita e Baharain . L'Arabia Saudita è l'unico paese che al momento sta facendo qualcosa legato direttamente all'aspetto militare, attraverso la costituzione di campi di addestramento per diecimila componenti dell'opposizione siriana presenti nel paese. La vera domanda – conclude Karasik – è relativa a come i sauditi riusciranno a tenere insieme i miliziani siriani e quanto tempo durerà tale processo formativo, processo che di solito dura tra i 9 mesi e l'anno”.
I ruolo degli stati del golfo persico sarà direttamente legato alle loro modalità d'intervento nel conflitto, provando ad evitare un coinvolgimento diretto – quali operazioni militari –, ma potenziando le operazioni d'intelligence, sia per quanto riguarda i movimenti finanziari diretti alle formazioni terroristiche sia per quanto riguarda le modalità di reclutamento dei miliziani, aspetto questo che al momento rappresenta uno dei grandi punti di forza dell'Is. E la discesa in campo, nelle ultime ore, di importanti religiosi islamici a favore della campagna antiestremistica conferma la tendenza ad un rinnovato approccio del mondo mediorientale all'emergenza terrorista nell'area.
Il Gran Mufti al-Shaikh
“L'idea di estremismo, radicalismo e terrorismo non ha niente a che fare con l'Islam. E i loro sostenitori sono i nemici numero uno dell'Islam” ha affermato il 16 settembre scorso il Gran Mufti saudita Sheikh Abdul Aziz al-Shaikh, condannando apertamente l'operato dei miliziani dell'Is così come di al-Qaeda.
Un punto chiave su cui si potrebbero giocare i destini della campagna militare, che in ogni caso non durerà poco e a parere di chi scrive non potrà assistere ad un coinvolgimento di basso profilo dei paesi occidentali, riguarderà il controllo del territorio mediorientale e più specificamente i flussi ‘migratori' delle cellule estremiste, sempre a caccia di nuovi terreni da colonizzare per nascondersi ed addestrarsi. Anche in questo caso il ruolo degli stati del Golfo sarà di primo piano, essendo gli unici di fatto a poter intervenire direttamente sui propri territori attraverso il monitoraggio costante dei flussi economici e migratori locali.
È bene sottolineare che, nonostante l'intesa di massima e la volontà di cooperare, all'interno del Ccg sono presenti molti dubbi, soprattutto sul ruolo ricoperto dagli Usa e dalle politiche schizofreniche messe in campo fino ad oggi in Medio Oriente da Washington. Il timore che l'avvio delle nuove operazioni possa essere il viatico per il ritorno ad una presenza attiva dei militari nordamericani nell'area è grande, così come il dubbio che al momento manchi una strategia d'insieme per l'area e che al momento si stia procedendo sull'onda emozionale delle decapitazioni avvenute di recente in Siria.
I dubbi dei paesi del Golfo sull'operato Usa
L'amministrazione Usa ha condannato nuovamente il governo siriano chiedendone le dimissioni, ma il ministro degli Esteri di Damasco ha reso noto che gli Usa, sfruttando il canale diplomatico del Palazzo di Vetro (a breve si terrà un importante meeting all'Onu sul tema), hanno avvisato il governo siriano dell'avvio delle operazioni militari sul suolo nazionale. Tale forma di cortesia, per così dire, può essere considerata di particolare rilevanza visto che allo scoppio delle ostilità in Siria la Russia aveva imposto il veto ad operazioni militari di sorta sul territorio di Damasco. La scelta politica di Washington sembra al momento voler pubblicamente prendere le distanze da Damasco, ma al contempo lavorare di concerto con il governo alawita di al-Assad per ottenere risultati pratici in tempi stretti.