In queste ore tutte le testate italiane titolano: “Google accetta di pagare gli editori per i contenuti”. Nelle redazioni italiane si è subito brindato a champagne: “ora il salvatore arriverà anche da noi” si sarà pensato. Forse è meglio riporre le bottiglie e ritornare a lavorare per costruire il futuro perché in quei titoli sparati c'è una notizia “non vera”.
Nella nota rilasciata ieri da Mountain View v'è scritto:
Today I announced with President Hollande of France two new initiatives to help stimulate innovation and increase revenues for French publishers. First, Google has agreed to create a €60 million Digital Publishing Innovation Fund to help support transformative digital publishing initiatives for French readers. Second, Google will deepen our partnership with French publishers to help increase their online revenues using our advertising technology.
Nelle parole del Executive Chairman del colosso di Mountain View Eric Schmidt non è mai menzionata la parola “contenuti” né tanto meno “pagamento agli editori”. Le sue parole sono un solco, l'unico possibile per un'azienda: fare buisness. I due asset lungo i quali si muove il protocollo d'intesa stilato con il Presidente francese Hollande prevede: l'utilizzo di tecnologie proprietarie – quali AdSense e il gestionale per la pianificazione pubblicitaria di proprietà di BigG (DFP) – al fine di incrementare le revenues pubblicitarie dei giornali; e un fondo di 60 milioni di euro per sostenere “iniziative editoriali innovative”.
Alcuni analisti – diremmo disattenti – hanno subito esultato: “Google finalmente ci pagherà il dovuto” o anche “Google finanzia la transizione dei giornali verso il digitale”. Nulla di più errato.
Google ha stilato un protocollo che è a dir poco suicida per i media francesi. In cambio di pochi spiccioli – 60 milioni di euro in 5 anni – l'azienda di Mountain View ottiene una maggiore adesione dei giornali francesi all'utilizzo di AdSense, ovvero la pubblicità veicolata da Google stessa. Su questi formati l'editore riceve solo il 62% del reale investimento, il restante è trattenuto nelle casse dell'azienda americana. Ancor più suicida è l'utilizzo del gestionale fornito da Google che de facto determina la cessione dei propri fatturati pubblicitari nelle mani di BigG, poiché è l'algoritmo di redditività che determina quali campagne affiggere (e traccia il fatturato di ciascun editore). Insomma a fronte di un piccolissimo investimento Google, tra qualche anno, avrà una posizione dominante nel mercato pubblicitario francese, schiacciando sempre di più il ruolo delle concessionarie pubblicitarie – ogni gruppo editoriale possiede la propria -.
Inoltre i sessanta milioni di euro non saranno un finanziamento a pioggia ma verranno versati nel fondo statale destinato alle aziende editoriali ivi comprese i cosidetti pure player (in Francia Mediapart piuttosto che Atlantico e AgoraVox sono realtà consolidate e affermate) questo determinerà una torta da dividere anche con gli attori che già hanno già investito sul tutto digitale. Un fondo, in breve, che non è destinato unicamente ai giornali cartacei ma a tutti gli attori editoriali che proporranno progetti innovativi.
Se questa cosa vista da questa parte delle Alpi può sembrare una novità c'è da segnalare che già da 4 anni in Francia, il governo sostiene l'editoria non “in base al rapporto tra copie vendute e distribuite” come avviene in Italia – quindi ponendo l'accento solo sui giornali di carta – ma attraverso il suddetto fondo aiuta tutte le realtà del mercato (digitali e non) a promuovere nuovi progetti editoriali. Detta in altri termini più che alla “conservazione” si aiuta l'evoluzione. In tal senso si è mossa anche Google, ovvero all'interno del perimetro giuridico tracciato dallo stato francese, finanziando l'innovazione e non la sopravvivenza delle aziende editoriali.
A questo punto invece di esultare perché “Google paga” sarebbe opportuno porre ai nostri analisti almeno due domande:
a) Perché mai un'azienda privata dovrebbe finanziare la transizione dei giornali tanto più che questi sono aziende private quotate in borsa?
b) Perché il finanziamento in Italia è rivolto solo verso attori “reazionari?
Google in Francia non ha attuato una strategia di sostegno ma ha messo in piedi un piano d'espansione che mira ad allargare la propria pervasività nel mercato pubblicitario – in una lenta corsa verso il monopolio – e finanzia l'innovazione perché più attori agiscono in rete più pubblicità potrà vendere. In altri termini ci troviamo dinanzi ad un accordo da azienda business orientend che investe solo in caso di ritorno.
In breve Google non sta “pagando i contenuti” come da titoli di stamane ma sta portando sempre di più i media d'oltralpe sotto il suo ombrello protettivo. Sopratutto lo fa all'interno di un quadro normativo che non viola le leggi europee sulla concorrenza – cosa che sarebbe avvenuta se l'investimento fosse stato rivolto ai soli media cartacei -.
Ciò che lascia basiti dall'interpretazione italica di tale mossa letta da un punto di vista di “giusto assistenzialismo” come se fosse normale per un'azienda privata sostenere la crisi dell'editoria generata da altre aziende private. Un capitalismo italico che incassa gli utili e scarica sullo Stato le perdite. Un capitalismo insostenibile per uno Stato in deficit e che ora si appella ai fratelli più grandi cappello in mano.
Un capitalismo che invece di innovare invoca la restaurazione e che per questo non interessa alle aziende che hanno lo sguardo rivolto vero il futuro.