EGITTO – Bur Said è una città nata intorno al porto che serviva per ospitare le navi dirette alla costruzione del canale di Suez. È stato lì che mercoledì 1 Febbraio è accaduto l’impensabile. Una partita di calcio tra la squadra di casa, el-Masry, e la squadra ospite, la cairota el-Ahli, si è trasformata in una carneficina. Al termine del terzo fischio dell’arbitro i tifosi di Bur Said hanno invaso il campo. Ne è seguita una battaglia che ha provocato settantadue morti e più di mille feriti. Il paese si è fermato, incredulo. Il giorno dopo è stata convocata una riunione d’emergenza del Parlamento per discutere l’accaduto, mentre i manifestanti si sono radunati al di fuori per protestare. La gente ha guardato il dibattito in diretta a casa propria o sugli schermi dei bar al Cairo e in altre città. Molti sono convinti che la responsabilità vada attribuita alla negligenza del ministero dell’interno e delle forze di sicurezza. Altri invece affermano che l’evento è stato pianificato e realizzato per dare una lezione agli ultras dell’Ahli, il braccio “armato” della rivoluzione. Erano stati loro, insieme ad altri gruppi di ultras, a proteggere i manifestanti riuniti a piazza Tahrir quando, all’inizio della rivoluzione, la polizia o la baltagya, i “teppisti” pro-Mubarak, l’avevano ripetutamente assalita. Come era avvenuto in occasione della carica su Tahrir da parte delle truppe cammellate quasi esattamente un anno fa. I manifestanti avevano poca esperienza nel confronto violento con le forze del regime. Gli ultras, al contrario, erano stati coinvolti, già dal 2007, in numerosi episodi di guerriglia urbana contro la polizia.
La reazione ai fatti di Bur Said è stata immediata. Il giorno successivo la piazza è stata nuovamente occupata, mentre nelle vicinanze i manifestanti hanno cominciato ad assediare il ministero dell’Interno. Giovedì scorso ero con alcuni amici italiani in via Mansour, all’imboccatura della strada che conduce al ministero dell’interno. Un cordone di polizia fronteggiava i manifestanti, impedendo loro di passare. Gli ultras sono arrivati correndo, tenendo in alto le bandiere dei rispettivi gruppi. Il corteo si è aperto, lasciandoli passare, ed è cominciato lo scontro con la polizia. Da allora la fisionomia del conflitto con le forze di sicurezza ha assunto forme simili a quella degli scontri di novembre e dicembre, quando decine di manifestanti erano morti soffocati dai gas lacrimogeni o a causa delle ferite ricevute. E come allora, gli scontri non si sono limitati al Cairo, ma si sono estesi rapidamente ad altri centri del paese. Dopo cinque giorni sono dodici i dimostranti che hanno perso la vita, a Suez e al Cairo. Il ministero della Salute sostiene che i feriti sono più di 2500.
Il calcio che si intreccia con la politica – Da tempo gli ultras egiziani erano divenuti un attore rilevante sulla scena politica egiziana, e i giornali locali ormai dedicano al fenomeno interi editoriali e analisi. E tuttavia loro ancora sfuggono ai media e non rilasciano interviste, secondo alcuni per proteggere il carattere collettivo che li caratterizza. In altre parole, non vogliono star mediatiche individuali, ma preferiscono apparire sempre e solo come un’identità collettiva. Questa è la loro forza. A noi italiani può apparire strano che gli ultras possano giocare un ruolo tanto rilevante nella vita politica di un paese. Per comprendere questo, è necessario capire la natura dell’attivismo politico egiziano che ha portato alla rivoluzione del 25 gennaio 2010 e che oggi ne difende gli obiettivi. Si tratta di un nuovo tipo di attivismo, che potremmo definire “politica dei network”: un agire politico fluido, dove i partiti e le vecchie ideologie faticano a trovare un loro spazio. Dietro le manifestazioni si muove invece una rete di variegati attori politici: movimenti di protesta con legami deboli, semmai organizzati il giorno prima attraverso una pagina Facebook o una serie di tweets, gruppi di attivisti, associazioni civili, organizzazioni sindacali e studentesche, organizzazioni politiche come i Socialisti Rivoluzionari, bloggers e net-attivisti. Un esempio tra i più importanti è il movimento “6 Aprile”, detto anche “il partito di Facebook”: nato nel 2008 con l’obiettivo di sostenere uno sciopero di lavoratori nella città industriale di el-Mahalla el-Kubra, è ancora oggi uno degli attori più popolari delle proteste. Non a caso il suo leader, Ahmed Maher, è stato ferito l’altro ieri durante gli scontri. Le reti (network, appunto) di attivisti sono costituite per lo più da giovani, ma non solo, e sono percorse da diverse correnti politiche: se l’attivismo di sinistra appare quello più visibile, non mancano giovani islamisti o elementi con posizioni più a destra. La loro azione politica non si basa tanto sulla struttura o l’ideologia delle organizzazioni che ne fanno parte, ma sulla capacità di mobilitarsi in modo flessibile intorno a obiettivi comuni coordinando competenze diverse.
Un ruolo decisivo all'interno dei movimenti – È questa fluidità che permette agli ultras di giocare il proprio ruolo all’interno dei movimenti. La loro competenza? Sono il braccio armato della rivoluzione: sono loro che intervengono a proteggere i manifestanti quando ce n’è bisogno. In comune con gli altri attivisti hanno la giovane età e il forte disagio sociale di fronte a un regime corrotto le cui politiche negli ultimi anni non hanno fatto altro che allargare la forbice tra ricchi e poveri. Gli obiettivi dei manifestanti sono sempre gli stessi: costringere la giunta militare guidata dal Maresciallo Mohamed Hussein Tantawi ad abbandonare definitivamente il controllo sulla vita politica del paese. Dopo la caduta di Hosni Mubarak, l’11 febbraio 2010, la giunta militare ha continuato a detenere un potere enorme. Il governo in carica è ancora quello nominato da Tantawi. I tribunali militari hanno proseguito regolarmente ad arrestare attivisti. La censura dell’informazione, mi diceva pochi giorni fa un giornalista del quotidiano el-Shourouq, è a volte ancora più feroce di quella dell’epoca precedente alla rivoluzione. Il periodo di transizione verso le elezioni presidenziali è stato più volte rinviato, e solo le manifestazioni di novembre a Tahrir hanno costretto i militari a dare finalmente una data ufficiale, fissata al giugno 2012. Ma i manifestanti non si fidano: le reali intenzioni della giunta appaiono ancora oggi poco chiare. Se sono veramente intenzionati a portare il paese verso una reale democrazia, è ancora tutto da vedere.
I guardiani della Rivoluzione – Da qui l’atmosfera di mobilitazione permanente in Egitto. I movimenti di protesta che hanno realizzato la “rivoluzione di gennaio” si sono trasformati in guardiani di quella rivoluzione. Il loro approccio alla politica parte dal basso: ricostruire la società egiziana e il futuro Egitto attraverso un coinvolgimento diretto, in prima persona, senza contare sulla mediazione di nessuno, a cominciare dai partiti che ora siedono nel Parlamento uscito dalle ultime elezioni. Gli attivisti non si fidano della “via istituzionale” rappresentata dal Parlamento. Fratelli musulmani e Salafiti, i partiti che sono usciti vincenti alle ultime elezioni, appaiono aver scelto un approccio più attendista e una strada di compromesso con la giunta militare. Ma il Parlamento, sostengono i manifestanti, non ha in questo contesto politico sufficienti poteri formali per portare avanti la transizione. Soprattutto, la rivoluzione non l’hanno fatta le forze politiche che hanno vinto le elezioni, ma quelle stesse persone che ancora oggi continuano a scendere in piazza. E per questo intendono continuare a proteggerne gli obiettivi.
La rivoluzione continua…