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Giornalista di Al Jazeera racconta a Fanpage il blitz dei militari israeliani: “Aggressione contro di noi”

Parla a Fanpage.it Waleed Omary, capo ufficio della sede di Al Jazeera a Ramallah. Il giornalista era presente nel giorno dell’incursione dell’esercito israeliano in redazione: “Ci hanno urlato che avevamo solo tre minuti per lasciare l’edificio”.
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“All’1.20 sono rientrato in ufficio dopo aver coperto tutto il giorno l’escalation nel nord di Israele e in Libano. Alle 3 del mattino i militari israeliani sono entrati a Ramallah e ho iniziato la mia diretta dicendo che non sapevamo quale fosse il target di quell’invasione”, racconta ancora incredulo Waleed Omary, il capo dell’ufficio stampa dell’emittente araba Al Jazeera a Ramallah.

“Poi i militari hanno cominciato ad avvicinarsi alla strada Shireen abu Akler. Io sono rimasto nel balcone, e mentre ero in live mi hanno detto che i soldati erano entrati dentro l’edificio. Sono corso all’entrata dell’ufficio e ho aperto la porta, allora una ventina di soldati sono entrati. Erano armati, avevano i fucili, i lacrimogeni, alcuni avevano addirittura il volto coperto. Quando ho chiesto cosa stessero facendo lì loro mi hanno detto che avevano l’ordine di chiudere Al Jazeera. Mi hanno mostrato il documento in arabo dove c’era scritto che: l’ordine era stato emesso secondo la legislazione dello stato d’emergenza del mandato britannico e che avrebbero chiuso l’ufficio per 45 giorni perché Al Jazeera supporta il terrorismo”, continua Omary, “poi ci hanno ordinato di andare via entro dieci minuti, portando con noi solo gli effetti personali. Dopo qualche secondo hanno urlato che avevamo solo tre minuti per lasciare l’edificio”.

Omary e i suoi colleghi scappano dalla redazione di Al Jazeera, costretti ad abbandonare dentro l’ufficio tutto il loro materiale di lavoro. “Siamo andati via. I soldati ci hanno seguiti e ci hanno vietato di prendere l’ascensore. Una volta giunti alla fine della strada abbiamo ritrovato altri due colleghi, loro avevano la telecamera e io avevo con me il mio microfono, così siamo andati in diretta, ho cercato di spiegare quello che stava succedendo al nostro pubblico, ma i soldati sono arrivati, ci hanno preso la telecamera e il microfono, dicendo che non potevamo stare li”.

Quella è stata l’ultima volta che i colleghi di Al Jazeera arabic sono andato in diretta dalla strada intitolata a Shireen abu Akler, la giornalista della stessa emittente giustiziata dai soldati israeliani l’11 maggio 2022 nel campo profughi di Jenin. Da domenica scorsa, giorno dell’incursione dell’esercito nella redazione di Ramallah (area A della Cisgiordania sotto il totale controllo dell’autorità palestinese), i giornalisti di Al Jazeera sono stati costretti a interrompere il loro lavoro che, da anni e in particolar modo negli ultimi mesi, aveva un ruolo fondamentale nel mostrare al mondo intero cosa accade tra Israele e Palestina.

“I soldati sono andati via dopo circa tre ore. Quando siamo tornati a vedere cosa avessero fatto abbiamo trovato la porta dell’ufficio stampa sigillata. Non sappiamo cosa hanno fatto dentro, ci hanno lasciato solo due fogli appesi alla porta, uno con l’ordine di chiusura in ebraico e un altro con la lista dell’attrezzatura che ci hanno confiscato. Tra le cose che hanno portato via tutti i computer, le macchine fotografiche, l’attrezzatura per il montaggio” – continua il giornalista – “la cosa che più ci ha fatto male, però, è stato vedere il video dei soldati che rimuovono e strappano il grande poster di Shireen appeso all’entrata dell’ufficio”.

La lista dell'attrezzatura sequestrata dall'esercito
La lista dell'attrezzatura sequestrata dall'esercito

L’incursione nella sede dell’emittente araba a Ramallah arriva dopo quella all’ufficio di Gerusalemme lo scorso 5 maggio, anche allora vennero imposti 45 giorni di chiusura, poi rinnovati. “Abbiamo paura che succeda lo stesso anche a noi e che chiudano ad oltranza il nostro ufficio senza nessuna reale accusa, senza nessun processo legale e con scuse ridicole come quella del terrorismo" – ammette Omary – "nessuno ci ha avvisati prima, non ci hanno dato la possibilità di verificare legalmente l’ordine di chiusura. Questa è un'aggressione contro di noi, contro i diritti umani, contro la libertà di espressione e di stampa, ma anche contro la vita. Dal 7 ottobre hanno ucciso 174 giornalisti palestinesi a Gaza. Quattro dei quali erano nostri colleghi di Al Jazeera. Se si conta insieme a loro anche Shireen, sono 5 i colleghi di Al Jazeera che l’esercito israeliano ha impunemente ucciso negli ultimi 2 anni”.

E mentre Israele silenzia qualsiasi voce non supporti il suo governo e le sue criminali azioni, la tensione sale alle stelle in Libano dove l’esercito di Tel Aviv ha ucciso in meno di 24 ore più di cinquecento civili. Secondo il direttore dell’ufficio stampa di Al Jazeera a Ramallah la chiusura della loro sede potrebbe anticipare un’intensificazione della violenza anche in Cisgiordania, dove a fine agosto l’esercito israeliano aveva invaso e assediato per giorni alcune città e campi profughi del nord.

Ordine di chiusura della sede di Al Jazeera a Ramallah
Ordine di chiusura della sede di Al Jazeera a Ramallah

“Hanno iniziato con Al Jazeera perché Al Jazeera è molto grande e famosa. Il suo impatto internazionale è alto perché ha una grande credibilità. Ma il governo di Netanyahu non risparmia neanche i media israeliani che provano a fare contro informazione. L’obiettivo è che venga trasmessa solo la voce di Netanyahu e del suo governo estremista”, conclude Omary, “noi come Al Jazeera abbiamo sempre fatto un’informazione corretta e imparziale. Dal primo giorno di questa guerra abbiamo trasmesso in diretta quello che stava accadendo a Gaza, nella Cisgiordania occupata e in Israele. Abbiamo riportato le parole dei funzionari israeliani, del portavoce dell'IDF e del primo ministro israeliano. Abbiamo intervistato le famiglie degli ostaggi e abbiamo coperto ciò che avveniva al nord di Israele ma anche a Tel Aviv. Loro hanno deciso di vietare il nostro lavoro in Israele, a Gerusalemme Est e sulle alture del Golan e adesso anche in Cisgiordania.  Quello che penso è che abbiano chiuso il nostro ufficio in Cisgiordania perché probabilmente hanno intenzione di intensificare l'escalation anche qui, come a Gaza e in Libano”.

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