Ginevra 2, il futuro siriano passa per il regime di Assad
Se a Montreux i numi tutelari della conferenza internazionale denominata “Ginevra 2” – il russo Lavrov e lo statunitense Kerry – permettono al segretario Onu Ban Ki Moon di rilanciare i colloqui per una soluzione pacifica e politica ai dolori della Siria (130.000 vittime, 500.000 feriti, oltre due milioni di profughi) c’è da riflettere sull’effettiva efficacia dell’operazione. Primo elemento di debolezza è l’assenza dell’Iran al tavolo dei colloqui. Un passo claudicante con cui il blocco occidentale ha cercato di venire incontro al volere d’un frammentatissimo fronte anti Assad. Una mancanza dell’esponente iraniano non avvantaggia la diplomazia statunitense, che col nuovo corso di Rohani ha avviato un dialogo, e che attraverso le vicende siriane può far seguire accordi su un terreno che ha tenuto, e tiene, in sospeso gli equilibri internazionali nell’area: il piano nucleare di Teheran. In un auspicabile prosieguo dei rapporti la voce iraniana non potrà mancare perché riveste un ruolo geopolitico centrale, che coi fedelissimi combattenti libanesi di Hezbollah giunge sin sulla linea del fuoco. Sul fronte opposto va notato un altro pesante vuoto: il Fronte Islamico, che nella galassia dei ribelli anti regime rappresenta il fulcro della guerra jihadista.
Il Fronte considera qualunque trattativa un tradimento del proprio programma, si mostra totalmente chiuso al più logico pragmatismo guerriero, oltre che cieco e sordo nei confronti della popolazione che rappresenta o dice di rappresentare. I jihadisti marciano verso lo Stato Islamico del Levante e non vogliono interruzioni di sorta. Se hanno usato strumentalmente armi chimiche, se hanno subìto le torture poliziesche recentemente denunciate da Cnn e del The Guardian, se anche loro cavano occhi e tagliano gole, tutto rientra nell’immenso e crudele buco nero che è diventata la guerra civile e mercenaria siriana. Anche altre voci anti Assad hanno criticato il nuovo passo diplomatico, parlando di suicidio politico dell’opposizione nell’accettare colloqui con un regime che si può solo abbattere. Ma come? Da mesi i ribelli tentennano, l’uso della linea del terrore incentrata sulle autobomba a Damasco e nella stessa Beirut ufficiale (Hamra) e in quella sciita (Haret Hreik, è di ieri l’ultima deflagrazione mortale) non sta pagando. L’esercito lealista resiste e, dossier tortura permettendo, la Nato che sino allo scorso settembre sembrava alle porte è stata fermata dal tutor moscovita di Damasco. E poi lo stesso presidente-dittatore ha mostrato duttilità nell’accettare i sopralluoghi nei siti dell’armamento chimico da smobilitare e smobilitati.
Oggi Assad è molto più forte dei mesi scorsi. Difficilmente Lavrov e Kerry medesimo, ieri plateale e volutamente retorico, consentiranno un suo abbattimento nonostante i tanti nemici interni ed esterni che ne ricordano i massacri popolari. Una cospicua parte della gente siriana, non solo alewita, continua a sostenere Assad. Per interesse, opportunità, fede politica, poco importa. Sono fattori che hanno consentito a Muallem, il ministro degli esteri siriano presente a Montreux, di fregarsene del protocollo e straparlare per 25 minuti. Muallem ha puntando il dito sui colleghi occidentali che avrebbero “il sangue siriano sulle loro mani”, ovviamente per l’armamento e il sostegno finanziario offerto ai ribelli ormai da oltre un biennio. L’altro monito ha riguardato la futura leadership nazionale: una decisione che spetta esclusivamente ai siriani, fuori da cambi di regime imposti col terrore e l’invasione. Né Iraq né Libia, dunque. Ammesso che fra i vertici dei Paesi Nato qualcuno pensi oggi di poter ripetere imprese tanto destabilizzanti per il quadro internazionale che si vuole ridisegnare. Simili spettri d’ingovernabilità fungono da monito ai think tank della politica mondiale per valutare come condurre un dopo Asad. All’orizzonte di possibili elezioni a giugno non c’è nessuna figura che possa rappresentare la nazione. Perciò: Assad o ancora guerra.