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Gezitown, la città della libertà: i mille volti degli “infedeli” a Erdoğan

Ecco chi sono i giovani che contestano il “pensiero unico” imposto da Erdoğan: marxisti, libertari, repubblicani, freak…
A cura di Enrico Campofreda
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Il popolo di Gezi park mostra il sogno e lo teorizza. Ne fa una piattaforma che presenta al governo, attualmente incarnato da Bülent Arınç sostituto pro tempore del premier Erdoğan la cui missione estera in Maghreb rimanda ma non cancella un confronto con la città che lo contesta e con gli islamici del partito cui non piace il suo decisionismo. Il decalogo ha nove punti tracciati più uno. Quelli scritti domandano scuse ufficiali contro le ingiurie sul proprio essere "barboni" e "saccheggiatori", cancellazione del progetto di ristrutturazione del parco, ritiro definitivo dei reparti antisommossa, indagini su governatore (Hüseyin Avni Mutlu) e capo della polizia (Hüseyin Çapkın) di Istanbul, ricordo di Taksim come piazza del primo maggio e della strage del 1977 e altro ancora. La decima richiesta è quella messa in mostra nei giardini diventati famosi: la festa della socialità e della fratellanza. La possibilità che i kurdi eseguano le loro danze e chi sventola stendardi con l’effige di Atatürk li stia a guardare e magari applaudire. Che agitatori neo marxisti si confrontino con attivisti repubblicani convenuti a contestare la Turchia dal pensiero unico, quello erdoğaniano. E libertari e tardo freak stiano a fianco di ragazzi ipertecnologici per nulla contrari all’apparenza a mercati e capitali. Eppure l’angolo dell’utopia che attira anche chi vive sull’altra sponda del Bosforo vorrebbe passare dal sogno a una realtà che cambia rapporti, mentalità, scopi di vita.

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Questo può essere forse l’unico elemento che avvicina Taksim a Tahrir, concetto immediatamente diffuso dalla vulgata dell’informazione mainstream. Non riconoscersi con la politica vigente, passata e attuale. Il desiderio di elaborare un modo di vivere che va oltre il capitale bancario padrone del mondo e la stessa ideologia che lo contesta, ingessata in schemi che non mordono e poco attraggono i ragazzi del Duemila. Non c’è qualunquismo in questi pensieri, si sventolano sempre le belle bandiere, si vogliono rigenerare i progetti che puntano a cambiare il mondo. Bisogna vedere come. Nello sciopero generale lanciato ieri dalla Confederazione del Pubblico Impiego KESK, piazza Taksim straripava delle cento e più voci dell’attuale Turchia: lavoratori sindacalizzati, militanti della sinistra extraparlamentare, anarchici, femministe, islamici anticapitalisti, minoranze etniche coi kurdi in testa, giovani del CHP, studenti e pensionati. E’ l’altro 50% della Turchia non schierata col partito di governo (AKP) unita per contestare chi pensa di togliergli il dissenso, ma finora non tal punto per convogliare tutte le forze verso un disegno generale. Bisognerà vedere se questi due mondi vorranno parlarsi o continuare a osteggiarsi.

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Ieri a Rize, città sul Mar Nero che ha dato i natali al premier, un piccolo gruppo di anti Erdoğan hanno manifestato davanti alla sede locale del partito di maggioranza, ne è nata una zuffa con la gente del posto fedelissima al primo ministro. In questo caso la polizia ha salvato i contestatori da danni peggiori. Per evitare che prossimamente casi simili si ripetano e aggravino i bollettini medici da campo di battaglia di questi giorni: tre morti (Istanbul, Ankara, Hatay), 4177 feriti di cui 3 in condizioni critiche e 43 molto gravi, con 10 persone che hanno perso la vista, dovrà cambiare qualcosa. Se non uomini certamente i comportamenti finora tenuti. E’ ovvio che il primo ministro e il partito di maggioranza sono i primi a dover fornire segnali.

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