Gaza, lo scrittore palestinese Karim Kattan: “Israele colonialista feroce, ma il fondamentalismo non libera la Palestina”
“Fin da ragazzo, all’ombra del muro dell’apartheid a Betlemme, ho provato un senso di vulnerabilità, mi sono sentito indifeso”; ricorda Karim Kattan “Gli stessi sentimenti confusi li provo oggi più forti”. L’autore di “Les Palais des deux collines”, successo letterario in Francia, racconta a Fanpage.it come si vive da colonizzati e spiega che chiamare le cose con il loro nome “evitando i superlativi e privilegiando le sfumature” può essere “un mezzo di riscatto per colonizzati e colonizzatori”. “I morti rimarranno morti e i mutilati saranno mutilati anche quando l’attenzione del mondo si volgerà altrove”, dice del conflitto. E chiede all’Europa di pretendere la fine immediata del blocco di Gaza. Mentre “Israele deve finalmente render conto di ogni violazione del diritto internazionale”.
Come si è sentito dopo gli attacchi di Hamas e la reazione di Israele?
Difficile esprimerlo, è tutto talmente estremo. Mi sento senza parole. E non posso davvero separare il periodo di questi giorni da altri periodi che l’hanno preceduto, in questa vicenda. Mi sento così da un pezzo, in realtà. È un sentimento intenso, duro da provare, che sfida il vocabolario perché si è sviluppato durante un lungo processo temporale di paure e aspettative. È un sentimento di impotenza, di disperazione, di vulnerabilità. Di essere indifeso e senza aiuto.
Vuol dire che, come palestinese, non ha provato soddisfazione per l’attacco terroristico a Israele? Non si è sentito meno impotente, meno vulnerabile?
Siamo tutti vittime collettive di ciò che ha fatto Hamas. La strage del Nova Festival (il rave party dove i terroristi hanno massacrato oltre 260 persone, ndr) è un orrore per israeliani e palestinesi. E ciò non significa ignorare il contesto: anche il feroce colonialismo di Israele è orrendo. Non c’è alcuna contraddizione. Riconoscere un orrore non significa minimizzarne un altro. Il destino del mio Paese e del mio popolo non può essere un gioco a somma zero. Perché il premio è la libertà della Palestina. Cosa che tra l’altro non implica necessariamente un perdente.
La politica di Israele nei vostri confronti è altrettanto orrenda quanto il massacro del rave party?
Vorrei evitare la conta dei morti da una parte e dall’altra. Non è proprio il momento per farla e comunque mi disgusta. Non si può distribuire il lutto tra chi se lo merita e chi no. Ogni singola vittima è una tragedia. Ma è chiaro che il rapporto di forza è asimmetrico e fortemente sbilanciato, e che i numeri rispecchiano necessariamente questa asimmetria. A sfavore dei palestinesi.
“Sapete chi vince nella guerra? Solo chi rimane vivo. Chi muore perde sempre, non importa di quale parte è”: è una frase di un suo collega, lo scrittore israeliano Roy Chen. Ha ragione?
Certo. E ci sono anche i feriti. I morti rimangono morti. I feriti non sempre guariscono. La morte di una persona ne colpisce decine, lascia in lacrime una famiglia e una comunità. E un ferito spesso significa un mutilato, con tutto quel che ciò implica anche economicamente e socialmente. Morti e mutilati resteranno morti e mutilati anche quando l’attenzione internazionale sulle nostre vicende si allontanerà.
Crede che ci sarà sempre la guerra tra israeliani e palestinesi?
C’ è sempre stata una guerra contro di noi. Anche nei cosiddetti periodi di “calma”, quando i media sono meno interessati, la gente muore a Gaza, viene arrestata in Cisgiordania e così via. Ciò che dà la stabilità all’occupazione è la guerra contro i palestinesi. Quindi la guerra continua. Ma non sono così arrogante da tentare previsioni per il futuro.
Diceva del “feroce colonialismo di Israele”. Può elaborare?
Le realtà della colonizzazione sono quantificabili e verificabili: dall’assassinio alle mutilazioni, agli espropri, agli arresti. Con i conseguenti effetti psicologici. I mezzi che vengono utilizzati da Israele vanno dall’esercito ai posti di blocco, dagli insediamenti di coloni ai bombardamenti. Tra i più clamorosi, il blocco di Gaza a partire dal 2007. Tra i meno spettacolari, il crudele e umiliante sistema dei permessi che regolano la vita giornaliera dei palestinesi, o la divisione della Cisgiordania in diverse zone per facilitare gli insediamenti. Tutte cose che, insieme a molte altre, costituiscono il crimine contro l’umanità noto come apartheid, di cui numerose organizzazioni (tra queste, Amnesty International e l’israeliana B’Tselem, ndr) accusano Israele.
E com’è vivere da colonizzati?
È un mix di sentimenti confusi e strani. Tra i quali, certo, anche l’odio per l’oppressore e la gioia di vedere un muro cadere o un carro armato israeliano ribaltarsi. Questo non significa giustificare gli orrori di Hamas. Ma è chiaro che vedere un bulldozer buttar giù un pezzo del muro dell’apartheid ha un effetto, su un palestinese.
Lei da ragazzo abitava a Betlemme. Il muro dell’apartheid lo conosce bene…
La mia casa era proprio a ridosso del muro. Non riesco a ricordarmi la città prima che fosse deturpata da quella costruzione.
E com’era da ragazzini, all’ombra del muro?
Ricordo, per esempio, quando durante la Seconda Intifada (la rivolta dei territori occupati contro Israele iniziata nel 2000 e terminata nel 2005, ndr) Israele assediò la città. Andavamo a scuola illegalmente, eludendo il coprifuoco, evitando carri armati e posti di blocco, attraversando confini che in teoria non avremmo dovuto attraversare. Era una vita di costante pericolo, che per noi era diventato normale perché non avevamo scelta.
È fin da allora che ha sviluppato quel sentimento di impotenza e di mancanza di aiuto di cui parlava poco fa?
Certo.
Oggi ragazzi di Gaza sotto le bombe hanno sentimenti analoghi, secondo lei?
Credo di sì. Immaginatevi come dev’essere avere diciassette anni a Gaza. Per tutta la tua vita hai visto solo la guerra, hai vissuto in una prigione. E ora i bombardamenti, la mancanza di acqua. I tuoi familiari probabilmente morti. Non possiedi niente e vieni trattato come un paria da Israele e dal mondo intero.
E questo può portare alla radicalizzazione e alla violenza, ovviamente. Quanto conta il fondamentalismo, oggi, nella questione palestinese? È un mezzo un ostacolo per la creazione di un vostro Stato libero e indipendente?
È un problema ma non è il maggiore dei problemi. Prima di tutto bisogna vedere che cosa si intende per Palestina. Non c’è solo Gaza, dove governa Hamas. Ci sono i palestinesi di Gerusalemme. Ci sono quelli che vivono in Israele. E ci sono i palestinesi della Cisgiordania. Il cui governo è laico, buono o cattivo che sia come governo.
E lei è laico?
Sono cristiano. La mia è una famiglia cristiana di Betlemme. Sono cresciuto tra cristiani e musulmani senza che la questione religiosa venisse mai posta da alcuno. La rabbia, il sentirsi senza speranze e indifesi dalla violenza di Israele contro i palestinesi non dipendono da questioni religiose. Con questo non voglio dire che non ci sia stata una radicalizzazione, soprattutto a Gaza. Ma se è un ostacolo, non è il principale. La questione palestinese va oltre il fondamentalismo.
Lei si trova attualmente in Francia. Dove sono state vietate le manifestazioni pro-Palestina. Che ne pensa, di questo divieto?
Penso che sia pericoloso. Rende ancora più incandescenti gli animi. E mi fa sentire ancora più indifeso, per tornare al sentimento di cui più abbiamo parlato in questa intervista.
Cosa dovrebbe fare oggi l’Europa, per fermare la carneficina ed evitare che si ripeta?
Pretendere che venga tolto il blocco a Gaza, subito. E far sì che Israele renda conto delle sue violazioni del diritto internazionale. Ogni volta che lo viola.
E voi intellettuali, voi scrittori di una parte e dell’altra, come potete contribuire?
Usando parole precise per descrivere il mondo in modo accurato. In mezzo a questo sconquasso che è appena iniziato, in uno scenario politico e mediatico in cui imperversano i superlativi e le iperboli, le certezze e gli assoluti, sarebbe un atto rivoluzionario. Lo dico da scrittore e da umanista. L’umanesimo rende possibili nuance e contraddizioni. Rende possibile quindi riconoscere che le cose sono complicate, confuse e spesso insopportabili. E che pure dobbiamo cercar di comprenderle, con il coraggio di guardare in faccia la realtà. Sarebbe un mezzo di riscatto. Per i colonizzati come per i colonizzatori.