Il capo della grande fabbrica che elogia la vittoria di Lukashenko alle elezioni e tutti – TUTTI – gli operai che si alzano in piedi dichiarando di aver votato per Svetlana Tsikhanouskaya (che in teoria avrebbe preso il 10%). Le più grandi industrie del Paese in sciopero, i sit in nelle fabbriche e i cortei che si uniscono dalle diverse strade di Minsk, e marciano assieme. Le donne in bianco che sfilano davanti ai palazzi del potere, al grido di “Crediamo, possiamo, vinciamo” I soldati che abbassano gli scudi e vengono abbracciati dai manifestanti.
Queste sono le immagini che arrivano dalla Bielorussia, ultimo Paese europeo a essere governato da un tiranno di nome e di fatto, Alexandr Lukashenko, che ha appena rivinto le elezioni con il “solito” 80% dei consensi e i “soliti” brogli, dopo mesi di repressione e incarcerazioni di qualunque candidato osasse sfidarlo. La storia (forse) la conoscete: questa volta l’illusione non è riuscita. Svetlana Tsikhanouskaya, moglie di uno dei candidati sfidanti arrestati o fatti fuggire da Lukashenko, si è candidata presidente e ha sfidato il tiranno. Ha perso, come si sapeva sarebbe accaduto, ma negli exit poll indipendenti condotti da agenzie europee nei seggi esteri – quelli in cui il governo non può imbrogliare – 86 elettori su 100 hanno indicato la loro preferenza per Svetlana Tsikhanouskaya e solo il 3% ha ammesso di aver votato Lukashenko. E i cittadini bielorussi, non bastasse, sono scesi in massa in piazza e hanno scioperato nelle fabbriche per dimostrare al mondo la gigantesca finzione che si era appena consumata.
Quel che vediamo oggi, una democrazia che nasce, è bellissimo. Quel che non vediamo – ma che ci viene raccontato: altro indizio di un regime che muore – è la repressione delle proteste, sono le migliaia di arresti di manifestanti , oppositori politicioppositori politici e giornalisti, sono i pestaggi in strada da parte di poliziotti in abiti civili, sono le torture che subisce chi viene fermato, sono i morti che questa piccola, grande rivoluzione, se mai sarà, lascerà sul terreno.
C’è altro ancora, che non vediamo, ma possiamo solo intuire. C’è la delicatezza geopolitica di questa rivoluzione, pericolosissima come tutto ciò che avviene ai confini della Russia di Putin, che si sente fisiologicamente minacciata quando in uno dei suoi stati-cuscinetto – e la Bielorussia lo è, come lo era l’Ucraina – una satrapia asiatica cede il passo a una democrazia occidentale. Chi ne sa qualcosa, lo dice apertamente: tutto bello, ma Putin non lascerà mai la Bielorussia in mano a europei e americani dopo aver già perso l’Ucraina e i Paesi baltici. Ed Europa e Stati Uniti non hanno la forza politica di stare dalla parte del popolo, soprattutto l’America nel bel mezzo del suo anno elettorale – e certo non con un presidente come Donald Trump, sui cui ambigui rapporti con la Russia si è speculato un bel po’. Pure lo strano e imbarazzato silenzio del governo italiano ha la sua inquietante eloquenza, in questo scenario.
Ecco, se non ci sono loro, dobbiamo esserci noi. Noi mezzi d’informazione – perdonate l’autoreferenzialità – che dobbiamo accendere un faro su quel che accade e tenerlo acceso più che possiamo, per evitare che l’ignavia della politica trasformi la rivoluzione in una violenta repressione del dissenso. Ma anche noi opinione pubblica – cioè, voi che state leggendo – che dovete porre attenzione a quel che accade ai confini del nostro mondo. Per loro, i bielorussi, che stanno lottando ora per ciò che hanno lottato i nostri nonni. Ma anche per noi, perché in un mondo post pandemico in cui i tiranni e gli autocrati stanno rialzando la testa, dalla Russia alla Turchia alla Cina – sì, dovremmo occuparci un po’ di più pure di Hong Kong – e in cui persino in Occidente si vellicano le idee di sorveglianza di massa e rinvii elettorali sine die, una democrazia che nasce è un fiore nel deserto. E che nasca in uno di quelle terre devastate tra Russia e Germania, Europa e Asia, Est e Ovest, dal Novecento di Hitler e Stalin, è ancora più bello.
Forza, Bielorussia, siamo tutti con te. O almeno, ci proviamo.