Fame di luce, cosa succede alle persone in guerra: “Il buio dei bunker crea ansia e depressione”
![Un rifugio sotterraneo nelle città bombardate dell'Ucraina](https://staticfanpage.akamaized.net/wp-content/uploads/2022/05/MG_9914-1200x675.jpg)
La chiamano “fame di luce” ed è la condizione psichica in cui si ritrovano le migliaia di persone costrette a restare nei rifugi sotterranei per sfuggire alla morte sulla superficie delle loro città. Ma è solo una piccola parte della risacca di disagio psichico che la guerra in Ucraina sta provocando e provocherà. Fanpage.it ne ha parlato con due esperti: Antonella Bertolotti, psichiatra di guerra e fondatrice di Intermed Onlus, e Damiano Rizzi, psicologo di guerra e presidente di Soleterre onlus. Entrambi stanno aiutando le vittime del conflitto, tanto i profughi quanto i civili e i militari rimasti in Ucraina.
“In guerra la morte è solo la punta dell’iceberg”
Che cosa succede nella mente di una donna, un uomo, un bambino o un adolescente quando arriva la guerra? “Accade – dice Rizzi – che prevalgono gli impulsi primordiali, quelli aggressivi, che tutti abbiamo, ma che nella normalità sappiamo tenere a bada attraverso tensioni astratte, come la razionalità, l’ironia, la cultura, l’arte… Durante la guerra tutto questo viene meno, rimane solo ciò che è drammaticamente concreto: l’assenza di cibo, di servizi essenziali, la paura delle bombe, lo stato di allerta perenne”. Per chi non muore: “In guerra – continua Rizzi – la morte è solo la punta dell’iceberg, dove l’iceberg è rimanere senza gambe, senza famiglia, senza mezzi di sostentamento”.
![Damiano Rizzi](https://staticfanpage.akamaized.net/wp-content/uploads/2022/05/damiano_rizzi_soleterre_kiev_bambini_oncologici-1200x627-1.jpeg)
“Nevrosi e psicosi per combattere l’attesa”
“Lo stato perenne, in una guerra come quella che si sta combattendo in Ucraina, è l’angoscia dell’attesa per quello che accadrà – spiega Bertolotti -. Tutti sanno che i russi potrebbero arrivare e invadere, ma non si sa quando e non si sa come. Questo fattore incontrollabile porta a una grave disregolazione emotiva, che ognuno tenta di contrastare come può: per esempio, alcuni contadini con cui avevo fatto amicizia nel periodo in cui ero a Vinnycja (Ucraina centrale, ndr), continuavano imperterriti a coltivare e ad arare, lo facevano quasi per scaramanzia, per ingannare l’attesa”.
![Antonella Bertolotti](https://staticfanpage.akamaized.net/wp-content/uploads/2022/05/119228168_3095422260557527_3630821023627978096_n.jpeg)
Il dramma dei profughi: “Come farò a ricominciare?”
Attualmente i cittadini ucraini emigrati come profughi di guerra in altri Paesi sono circa 5 milioni e mezzo. Tanti sono stati accolti da parenti e amici, altri si trovano in centri per i rifugiati, ma la preoccupazione rimane comune, perché nessuno di loro aveva scelto e programmato di lasciare la propria terra: “Nel campione che abbiamo analizzato (200 profughi ucraini al confine con la Polonia, ndr), l’84% delle persone ha paura del futuro, non sa come farà a trovare i soldi per vivere in un Paese straniero e senza sapere la lingua”, dice Rizzi.
Nei bunker l’incubo del buio
Ancora più in difficoltà i cittadini che non sono riusciti a lasciare l’Ucraina: per la maggior parte poveri e poverissimi, invalidi, anziani. Chi ne ha avuto la possibilità si è rifugiato nei sotterranei: “Nei rifugi – spiega Rizzi – la paura più grande è che cada una bomba sull’edificio sovrastante e non si riesca più a uscire. Se anche un luogo iper sicuro può rappresentare una minaccia di morte atroce, possiamo immaginare come il cervello si ‘disorganizzi’”. Non solo. “Si chiama ‘fame di luce’ – aggiunge Bertolotti – ed è l’istinto naturale a riemergere in superficie, perché stare chiusi in un bunker esclude dal mondo esterno, crea una sorta di dissociazione, che può portare a stati depressivi molto gravi o a crisi incontrollabili di ansia”.
![Vengono chiamati "shelter" (rifugi) o "bunker", ma sono per lo più scantinati](https://staticfanpage.akamaized.net/wp-content/uploads/2022/05/MG_0003.jpg)
Violenza di guerra, violenza domestica
A diventare violente sono anche le relazioni tra familiari: secondo Amnesty International, dal 2014 a oggi nelle zone del Donbass i maltrattamenti domestici sono aumentati in media del 117%, e per la precisione del 76% e nella regione del di Donetsk e del 158% nell’area di Lugansk. Non sempre si tratta di soggetti già violenti, spesso è la carenza di risorse primarie a portare, soprattutto i genitori, a risposte esasperate nei confronti dei figli minori, a loro volta provati fisicamente e psicologicamente.
Allarme bambini e adolescenti
Già a un mese dall’inizio della guerra, la Sinpia – Società italiana di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza – aveva espresso preoccupazione per la salute mentale dei minori coinvolti nel conflitto. Oggi le conseguenze sono tangibili: “Parliamo di bambini molto piccoli gettati dalla finestra per essere salvati, mentre i loro genitori sono morti, perché la loro abitazione è andata distrutta – dice Rizzi -. O bambini a cui cerchiamo di non amputare le gambe. Spesso si tratta di piccoli con pochi anni di vita, che a mala pena hanno l’uso della parola e possono esprimere verbalmente quanto provano e hanno vissuto. Potrebbero sviluppare un pensiero paranoideo, che faccia vedere loro tutto il mondo come aggressore, con il rischio di psicosi o, nel peggiore dei casi, di suicidio”.
![Un ospedale pediatrico a Leopoli](https://staticfanpage.akamaized.net/wp-content/uploads/2022/05/MG_9990.jpg)
Che cosa possiamo fare?
Nel 2019 la Banca Mondiale aveva definito l’Ucraina il Paese più povero d’Europa. Questa stima è stata rivista nella situazione attuale e peggiorata del 40%. Rispetto alla media dell’Unione europea, il governo di Kiev ha finora investito 15 volte meno in salute mentale (State of mental healthcare systems in Eastern Europe: do we really understand what is going on? Dzmitry Krupchanka and Petr Winkler, Cambridge University Press, 2018). Comparto che richiederà invece notevoli sforzi, anche da parte di tutti i Paesi che stanno accogliendo la popolazione in fuga. Che cosa possiamo fare, dunque? “Non bastano il cibo, la casa e la scuola – osserva Bertolotti -. Serve in primo luogo l’ascolto, che ci deve portare a imparare da questo dolore e soprattutto a non dimenticarlo. Dobbiamo esserci come persone”.