Ergastolo per chi sfigura le donne con l’acido: crollo di aggressioni in Bagladesh
“Mio marito era un drogato e un giocatore d'azzardo. Perse tutti i soldi e così fu costretto a vendere la nostra casa. Ero furiosa e gli dissi che lo avrei lasciato. Quella stessa notte, mentre dormivo, mi lanciò dell’acido. Tutto il mio corpo iniziò a bruciare. Sono stata in ospedale per sei mesi. Ho perso un occhio e il mio naso non c’è più”. E’ la drammatica esperienza vissuta da Farida, una donna di 40 anni del Bangladesh, sopravvissuta ad un’aggressione con l’acido. Hasina aveva 17 anni quando un bracciante agricolo, dopo una banale discussione sull'uso di un pozzo, le gettò una sostanza corrosiva. “All'inizio non mi rendevo conto di cosa fosse. Provavo un bruciore fortissimo così corsi subito da mia madre, ma nessuno sapeva cosa fare mentre rotolavo a terra e gridavo aiuto”. Come conseguenza dell’attacco, il viso di Hasina rimarrà deturpato per sempre. Popy Rani Das a 21 anni sposò un giovane orafo di Gazipur, una città a pochi chilometri da Dacca, la capitale del Bangladesh. Il matrimonio, però, divenne subito un inferno. Un giorno, il marito progettò di ucciderla e le fece bere un bicchiere con dell’acido che le ha distrutto la gola e l’esofago.
Diverse donne bengalesi aggredite con l’acido hanno avuto il coraggio di raccontare le loro storie: anni di disperazione fatta di sofferenze e discriminazioni, vivendo con la vergogna del proprio corpo. “Dobbiamo accettare quello che ci è successo”, consiglia Lilima, deturpata dall'acido quando aveva solo otto anni e che adesso aiuta altre donne a superare il trauma della violenza. “Non posso accettarlo”, risponde Shumi, una ragazza con il viso e il corpo completamente sfigurati dall'aggressione dell'ex fidanzato. “Le persone pensano che io sia forte, ma non è vero”, dice sconsolata la giovane. “Con il tempo lo diventerai”, la riassicurano. Shumi è stata otto mesi senza uscire dalla sua stanza nell'ospedale gestito da Acid Survivors Foundation (Asf), un'Ong bengalese che dal 1999 si dedica ad aiutare le sopravvissute agli assalti con l’acido offrendo loro cure mediche e assistenza gratuita. Nonostante la grave depressione, Shumi cerca di sorridere. “Immagina quando incontrerai l’amore della tua vita”, le sussurra una compagna mentre le accarezza i capelli. “Sarai come un uccello liberato dalla gabbia”.
In Bangladesh, la stragrande maggioranza delle vittime degli attacchi con l’acido sono donne, in molti casi adolescenti o anche solo bambine. Le aggressioni con sostanze corrosive – denuncia Asf – riflettono la disparità di genere e la discriminazione della donna nella società bengalese. Rifiutare una proposta di matrimonio – come è accaduto a Lilima – o respingere le avances sessuali di un uomo può spingere il desiderio di vendetta degli aggressori fino a voler distruggere quello che è considerato il bene più prezioso di una donna: la sua bellezza. Ma tra le ragioni figurano anche le dispute per la terra o riguardo alla dote che la futura sposa deve portare in matrimonio. Gli aguzzini sono quasi sempre uomini ma non sono mancati casi di maschi aggrediti con l’acido.
“Ho perso tutto, non solo il mio corpo. Ho perso la mia dignità. Dipendo dagli altri. Non posso vivere come un normale essere umano. Questa non è più vita. Nessuno mi accetta come sono”, confessa amareggiata Farima. “Per questo motivo indosso un burka, per evitare le domande e gli sguardi degli altri”. E non è l’unica donna a dover subire la discriminazione che segue la violenza. Quando tornò a casa, Hasina fu sorpresa di vedere come le persone la trattavano in modo diverso a causa del suo aspetto. ʽAvrà fatto di sicuro qualcosa di sbagliato' o ʽPerché è ancora viva?', erano i commenti dei vicini del suo villaggio. “Alla mia famiglia non piace che io vada fuori. Dicono che porto sfortuna. Non mi lasciano parlare alle giovani spose, né tenere in braccio un bebè”. Come risultato, Hasina evita di uscire e vive segregata in casa. Ansia, disturbi alimentari o del sonno, paura e stress post traumatico, sono alcuni degli effetti psicologici della violenza con l’acido sulle vittime. Molte donne soffrono di gravi depressioni a causa del loro aspetto fisico e la maggior parte di loro smette di andare a scuola o non lavora a causa della deturpazione. Alcune sopravvissute e le loro famiglie, inoltre, sono costrette ad affrontare enormi spese per pagare i costosi trattamenti medici: un ulteriore ostacolo, in uno dei Paesi più poveri dell’Asia meridionale.
Il Bangladesh, fino a pochi anni fa, aveva il triste primato mondiale di attacchi con l’acido: dal 1999 al 2015, oltre 3.500 persone hanno subito aggressioni con sostanze ustionanti. Nel 2002, per combattere il fenomeno, il Paese asiatico approvò due leggi (l'Acid Control Act e l'Acid Crime Prevention Acts) che, tra le altre cose, limitano l'importazione e la vendita di acido e prevedono la pena di morte (commutata con l’ergastolo) per gli aggressori. Una delle prime conseguenze è stata la drastica diminuzione degli attacchi tanto che altri Paesi hanno anche preso iniziative simili per combattere questo tipo di violenza di genere. Le aggressioni in Bangladesh, però, non sono cessate. Soltanto pochi mesi, nel villaggio di Kalapagla, Mariam, una ragazza di 23 anni, è rimasta gravemente ustionata dall'ex marito che le ha gettato dell’acido dalla finestra, ferendo anche i due fratelli più piccoli. E prima, a febbraio dello scorso anno, è toccato ad un’altra giovane donna, Madhabi Barua, attaccata con l’acido a Chittagong, la seconda città del Bangladesh.
Nonostante i passi avanti (nel 2017 ci sono state “solo” 47 vittime), questi crimini spesso non vengono denunciati perché le sopravvissute alle aggressioni vivono nel timore di rappresaglie e così il responsabile rimane impunito. “Mio marito è stato in prigione per dodici anni. Quando è stato rilasciato, ha minacciato di attaccarmi di nuovo”, afferma Farida. “Perché gli uomini ci lanciano l'acido? Cosa c'è che non va? Se non vogliono più vivere con noi dovrebbero lasciarci o dirci di andare via. Possono picchiarci, o anche spezzarci una mano. La mano può guarire. Ma quello che fanno è davvero inconcepibile”, conclude.