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Erdoğan, il velo sui social network

Le frasi pronunciate dal primo politico della moderna Turchia contraddicono l’impulso dato dal suo stesso governo al rinnovamento di tecnica ed economia.
A cura di Enrico Campofreda
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“Non sono un dittatore” e “I social media sono la peggiore minaccia per la società”: frasi che il premier turco Erdoğan ha pronunciato nello spazio di alcuni minuti fra interventi pubblici e discorsi televisivi possono essere il segnale di almeno due aspetti.

CIECA SUPPONENZA – L’importante ruolo che ricopre da anni ai vertici della politica nazionale e da qualche tempo internazionale gli conferiscono quella forza – e supponenza – tipica del potere che vira verso tentazioni assolutistiche anche quando s’ammanta d’investiture democratiche. E’ il volto delle tante democrazie occidentali che impongono un modello – il proprio – in casa e nei Paesi dove intervengono con gli affari o le armi. Oppure l’immagine dell’autocrazia cui la comunità internazionale fornisce per sue convenienze una patente democratica. La Turchia, anche in base al progetto dell’Islam moderato, ha ritrovato una governance appena accettabile, in questo del tutto simile alle sorelle mondiali che anziché in moschea pregano in chiese cattoliche, ortodosse e protestanti. Certo tutto è relativo. Negli ultimi decenni sulla penisola anatolica hanno pesato dittature militari e fasciste che opprimevano la popolazione oltre a perseguitare oppositori, comunisti, socialisti e islamici lanciati nell’agone politico. Per tacere dei trascorsi d’un laicismo militarista che, sin dalle origini dei citati ma poco studiati “Giovani turchi” e del padre della Patria, teorizzava uno Stato massacratore della diversità dal volto armeno, kurdo e altro ancora. Ma mostrarsi come l’Atatürk islamico non fa guadagnare credito al primo ministro che sogna di diventare presidente di una Turchia musulmana e presidenzialista. Certamente non fra i giovani urbanizzati e cosmopoliti, non fra i kemalisti storici e forse neppure fra i suoi.

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DISTACCO DALLA REALTA' – Allora quella che appare più una gaffe che un errore tattico di non poco conto può essere frutto di un distacco dal Paese reale che finora ha aderito e premiato il progetto col quale un partito intitolato alla Giustizia e allo Sviluppo ha attirato attenzioni e consensi della metà dell’elettorato nazionale. Forse a Erdoğan sfugge il particolare che una buona fetta di quella gente finora osannante è costituita da giovani e costoro, anche quando vivono in certe zone rurali, hanno annusato il profumo della globalizzazione. Ovviamente abitare a Istanbul o a Ceylanköy fa un po’ la differenza, ma ormai non in maniera così marcata di quanto possa sentire un ragazzo milanese e uno di San Lorenzo Bellizzi. Con la discordanza, peggiorativa per i nostri ragazzi, che è più facile trovare un’occupazione sul Bosforo che nel capoluogo lombardo attaccato all’amarcord. Almeno finora. Le cose potrebbero mutare perché lo stesso impulso economico vanto della Turchia dal Pil sprintato, di cui si fa bello l’establishment dell’Akp e che è servito da “voto di scambio” con un elettorato anche giovane, potrebbe subire quegli stop che darebbero ancora più fiato a una protesta per ora libertaria e repulsiva di bastone e imposizione. Questione che è stata molto sentita nelle primavere arabe rivolte contro dittatori e satrapi che uccidevano vite e speranze e al tempo stesso impoverivano. Perciò considerarsi, come fa Erdoğan, un servitore dello Stato e non un impostore, ma poi imporre ai cittadini il pensiero unico stride non poco. E lontano dall’attuale Turchia, che vesta il velo o beva alcol, è pensare che twitter sia il demonio.

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