Energia nucleare, c’è chi ci ripensa: il Regno Unito ordina una nuova centrale da 18 mld
Il governo conservatore di Teresa May ha dato il via libera alla costruzione della centrale nucleare di Hinkley Point nel sud ovest dell'Inghilterra. Un progetto da 18 miliardi di sterline che, a partire dal 2025, dovrebbe generare il 7% dell'elettricità necessaria in Gran Bretagna. La centrale sarà realizzata dalla società francese Electricité de France (EdF), assieme al gruppo cinese China General Nuclear Power Corporation, che contribuirà con 6,2 miliardi di sterline. Per Jean-Bernard Lévy, Ceo del gruppo francese, la decisione del governo britannico di approvare la costruzione di Hinkley Point “segna il rilancio del nucleare in Europa".
La costruzione di una nuova centrale infatti è in controtendenza rispetto al resto d'Europa dove in molti Paesi “nucleari” esistono piani di dismissione della costosa tecnologia. Nell'Unione europea sono attive 131 centrali atomiche in 14 Stati membri; in totale producono circa 121 gigawatt pari al 27% del fabbisogno energetico. Tre decenni dopo l'incidente di Chernobyl (Ucraina) – dove sei milioni di persone continuano a vivere in aree gravemente contaminate – e a cinque anni dal disastro di Fukushima (Giappone), la costruzione di nuove piante nucleari ha subito uno stop in quasi tutti i Paesi europei. Assieme alla paura di nuovi incidenti, la riduzione dei prezzi dell’energia all'ingrosso, il costo enorme di questo tipo di impianti e, soprattutto, la concorrenza delle fonti rinnovabili, hanno portato ad un ripensamento collettivo sulla bontà del nucleare. Secondo il World Nuclear Industry Status Report – un gruppo di valutazione indipendente sugli sviluppi dell’energia atomica nel mondo – il numero di impianti nel mondo è in costante diminuzione mentre l’età media di quelli esistenti continua ad aumentare. Nei prossimi venti anni arriverà a fine vita un’altra grossa fetta degli attuali 440 reattori (in particolare in Francia e Usa) con la chiusura di 132 impianti. E bisognerà vedere quanti dei reattori oggi progettati arriverà veramente ad essere realizzato.
A incidere sulla decisione di costruire o meno nuovi impianti pesa molto l’orientamento dell’opinione pubblica europea. E’ così in Germania dove la cancelliera Angela Merkel, dopo il disastro di Fukushima, ha deciso di abbandonare l’energia atomica entro il 2022, con un piano di potenziamento di fotovoltaico ed eolico, ma anche di gas e carbone. Il cambio di paradigma energetico di questa portata e in così poco tempo non è però esente da difficoltà. Secondo le aziende del settore, la decisione di Angela Merkel avrebbe violato un precedente accordo che estendeva la vita utile di alcuni impianti, e hanno cominciano a presentare i conti a Berlino per l’abbandono del nucleare. I tre colossi dell’atomo attivi in Germania – RWE, E.ON e Vattenfall – chiedono indennizzi per 19 miliardi di euro a titolo di risarcimento. Oltre ai costi già previsti per la dismissione degli impianti (servono altri 7,7 miliardi in aggiunta ai 38 già assicurati) la chiusura delle centrali nucleari rischia di costare molto caro al governo tedesco.
E anche in Francia – dove esistono più centrali che nel resto d’Europa (58 reattori operativi per 19 impianti elettronucleari in funzione) – il nucleare verrà ridimensionato. Entro il 2030 la produzione nucleare verrà ridotta del 25%. Il presidente François Hollande aveva promesso durante la campagna elettorale del 2012 una minor dipendenza dall'atomo e il governo francese costringerà le aziende a chiudere i reattori più vecchi, anche se non sono stati specificati esattamente quali. Il rischio che un progetto di una centrale finisca per costare significativamente più di quanto previsto è molto elevato. Nel Paese transalpino, il più grande operatore del settore al mondo, EdF, ha imposto notevoli aumenti tariffari per coprire i costi di gestione degli impianti. E Areva – multinazionale francese che opera nel campo dell'energia nucleare controllata al 90% dallo Stato – è tecnicamente fallita dopo una perdita cumulativa di dieci miliardi di euro negli ultimi cinque anni. Anche EdF è stata costretta ad aggiornare le stime su tempi e costi del nuovo reattore in costruzione in Francia, a Flamanville: doveva costare 3 miliardi di euro, invece ne costerà 10,5. Doveva essere pronto nel 2012, invece non entrerà in funzione prima del 2018.
Quello di Flamanville è uno degli unici due impianti nucleari in costruzione in Europa continentale. Nell'altro cantiere europeo, a Olkiluoto, nella Finlandia occidentale, le cose non sono andate meglio in quanto a sforamenti di tempi e budget: l'impianto, salvo nuovi imprevisti, entrerà in funzione nel 2018, anziché nel 2009 così come si prevedeva. E con costi quasi triplicati rispetto a quanto preventivato: circa 8,8 miliardi di euro, contro i 3 miliardi iniziali. La centrale di Olkiluoto sarà la sede del primo reattore Epr (reattore nucleare ad acqua pressurizzata), il primo commissionato in Europa occidentale negli ultimi 15 anni, l'ultimo è stato infatti il reattore francese di Civaux 2 nel 1991.
In Spagna sono presenti sei centrali elettronucleari in funzione che dispongono complessivamente di otto reattori operativi e uno dismesso. L’età media degli impianti è abbastanza alta (32 anni). La centrale di Santa Maria di Garoña (Burgos) – la più vecchia d’Europa – è stata chiusa definitivamente nel 2012 dopo oltre quarant'anni di attività. Nel Paese iberico non sono previste nuove centrali anche se gli ultimi governi hanno prorogato la vita degli impianti esistenti. Nel 2011 il parlamento spagnolo ha approvato quasi all'unanimità l’eliminazione della soglia dei quarant'anni come durata massima per l'attività degli impianti nucleari. La proroga delle centrali, sarà stabilita da ora in poi dal Consejo de Seguridad Nuclear, sulla base di controlli e requisiti tecnici, indipendentemente dall'età dell'impianto. Tale organismo ha già stabilito il prolungamento della vita della centrale di Vandellós fino al 2020 e di quella dei due reattori della centrale di Ascó fino all'ottobre del 2021. Il governo conservatore del Partito Popolare cercò nella passata legislatura di riattivare la politica nucleare spagnola però senza risultati. Nei piani del premier Mariano Rajoy c’era la riapertura della centrale di Santa Maria di Garoña e la costruzione di un cimitero per le scorie nucleari a Villar de Cañas (Cuenca). L’opposizione maggioritaria e la fine della legislatura hanno fatto naufragare questi progetti.
L’uso del nucleare per ridurre le emissioni di CO2. Un paradosso
Una ricerca dei professori Benjamin Sovacool e Andrew Stirling dell’Università del Sussex realizzata assieme a Andrew Lawrence della Scuola di Studi internazionali di Vienna mette decisamente in dubbio il fatto che affidarsi al nucleare sia una strategia vincente per quanto riguarda le politiche climatiche, almeno in Europa. Secondo i tre ricercatori il nucleare sarebbe piuttosto un ostacolo alla riduzione delle emissioni e all'installazione di impianti a rinnovabili. Per arrivare a questa conclusione hanno considerato il mix energetico dei Paesi della Unione europea e i progressi che raggiunti nella riduzione delle emissioni di CO2. La conclusione: le nazioni che non possiedono il nucleare (Irlanda, Italia, Austria, ecc.) hanno conseguito una riduzione media del 6% di CO2 e sono al 26% di produzione da rinnovabili, mentre quelli “filonucleari” (Francia, Uk, Finlandia, Ungheria, ecc.) hanno aumentato le emissioni di CO2 del 3% e hanno raggiunto solo il 16% di elettricità rinnovabile. Insomma, la presenza di nucleare, con l’intenzione di mantenerlo o aggiungerlo in futuro, sembrano agire da freno per il raggiungimento degli obiettivi climatici, almeno nel caso europeo di questi ultimi anni.