Egitto, l’esercito e la smania di guerra dietro l’umiliazione della Fratellanza
Il volto smunto di Mohamed Badie, la guida spirituale della locale Fratellanza Musulmana, accasciato fra due “angeli custodi” della polizia politica in un furgone che lo conduce in un carcere segreto, fa parte dell’umiliazione riservata dalla coppia Al-Sisi El-Beblawi all’organizzazione islamica. Dopo cinque giorni di stragi enormi e minute che hanno fatto mille morti, oltre ottomila feriti, duemila arrestati che sperano di non finire gasati come i 37 loro Fratelli, e una dozzina di emittenti chiuse, il canale governativo OnTv ha mostrato il settantenne leader islamico nella condizione di cattività che rimanda ai momenti più bui vissuti dal corpo militante della Confraternita. Sotto Mubarak e prima ancora.
S’è detto: la Brotherhood è abituata alla clandestinità, vissuta sino alle più recenti tornate elettorali d’inizio Duemila, dunque sopravviverà. Vero, ma l’attacco subìto, stavolta davanti agli occhi del mondo, potrà sviluppare non poche ripercussioni in un quadro che non riguarda solo l’Egitto. La vastità della repressione messa in atto dalle Forze Armate del Cairo fa il paio col ridisegno politico che l’intera area del piccolo Medio Oriente ha assunto da tempo in base alla guerra civile e a quella fomentata in Siria, alla destabilizzazione del Libano, all’offensiva contro Hezbollah e la sua leadership, al sempre esplosivo Iraq, alle emergenze prodotte su varie frontiere dalle migliaia di profughi per ora siriani e kurdi, domani anche egiziani.
E’ stato ricordato come Al-Sisi, che pure venne collocato da un ottimista o iperealista Mursi nel ruolo di capo della potente lobby in divisa, è un soldato formato negli Stati Uniti. Ha gestito in patria l’Intelligence ed è vicino a Israele con cui ha collaborato per tenere sotto pressione la componente combattente di Hamas nella Striscia di Gaza e controllare la galassia jihadista nella polveriera del Sinai. Il recente attacco omicida verso 25 poliziotti da parte di quest’ultime forze riveste la duplice funzione di propagandare la “nuova via” per il futuro egiziano vendicando le centinaia di martiri e sfregiare l’immagine efficientista del generale del golpe.
Uno sviluppo armato del contrasto politico non dovrebbe premere neppure agli uomini in divisa che quello scontro dovranno sostenere. Il loro passato (prima fase della guerra del Kippur a parte) è avaro di successi e dai detrattori interni vengono ritenuti uomini tronfi e inefficienti, buoni solo per reprimere e opprimere la popolazione disarmata. Eppure la sanguinaria uscita allo scoperto di questi generali è il probabile frutto di mosse internazionali fatte digerire dalle potenze regionali alla titubante amministrazione Obama. Ci riferiamo a Israele, stretta nella morsa della destabilizzazione siriana (e libanese) e della logorante crisi egiziana e all’Arabia Saudita che polarizza attorno a sé le altre petromonarchie contro l’invadenza qatarina e continua a giocare la partita egemonica a distanza con l’Iran.
Nella desertica “terra di nessuno” del Sinai il jihadismo amplierà azioni e reclutamenti, stimolati proprio dalla stretta repressiva voluta dalla politica nazionale. Può accrescere le fila togliendo spazio allo stesso fondamentalismo salafita, s’avvantaggerà il combattentismo qaedista rodato da una pratica pluridecennale e rilanciato dalla Siria ai confini turco e libanese. Nell’emergenza che s’ingigantisce la radicalizzazione si può allargare a macchia d’olio, trasformando altri angoli d’Egitto, abitati o meno, in tanti Sinai dove lo scontro assume i contorni della guerra aperta. E utilizza, come ha fatto due settimane fa Israele con la complicità del Cairo golpista, i droni per abbattere i nemici. Speriamo non accada, ma l’afghanizzazione è dietro l’angolo.