Egitto: ecco le vere ragioni della protesta
Rimuovere Morsi e dopo? Il grigio professore non è certo quello che l’Egitto s’aspettava e s’attendevano anche i Fratelli Musulmani. E’ un ripiego, una seconda fila che il movimento politico aveva tatticamente introdotto nella disputa elettorale, subodorando quel che in effetti accadde a tre mesi dalle presidenziali: la bocciatura di alcuni candidati forti e carismatici da parte della Commissione elettorale formata da magistrati cresciuti e pasciuti nel regime mubarakiano. L’uomo di punta della Confraternita era Khairat Al-Shater, imprenditore, ottimo oratore e politico pragmatico. Islamico sì, ma dialogante e diplomatico. Invece i giudici lo tagliarono, come impedirono a un altro formidabile politico, Abu Ismail, lui salafita di partecipare al voto, compensando questi forfait sul fronte islamista col divieto posto anche a Suleiman, il capo dell’Intelligence nel “regno di Mubarak”. Non a un ministro del raìs, Ahmed Shafiq, colluso coi traffici illeciti della prole del raìs cacciato a furor di popolo dalla Rivoluzione del 25 gennaio. Per comprendere i motivi d’una spaccatura diventata profonda e altamente pericolosa bisogna ripercorrere i sedici duri mesi di vuoto istituzionale vissuti dall’Egitto sotto la “tutela” del Consiglio Supremo delle Forze Armate diretto dal feldmaresciallo Tantawi.
Un periodo in cui l’esercito continuava a sparare e uccidere i veri ribelli di Tahrir, i giovani del movimento “6 aprile”, ma anche chierici rivoluzionari come Emad Effat, fratello musulmano freddato davanti alla sacra Moschea Al-Ahzar nel centro storico cairota di Khalili. E poi torturava Samira Ibhraim, bastonava e spogliava le attiviste impegnate nei sit-in di piazza. E organizzava stragi rimaste oscure come quella dello Stadio di Port Said, dove accanto a tifosi locali infoiati e accoltellatori agivano agenti infiltrati per massacrare 73 persone. Perché a una parte del Paese, che vesta la divisa o mangi grazie alla cospicua filiera imprenditoriale gestita dalle Forze Armate, stava bene l’Egitto come era e non ha mai digerito la voglia di cambiamento che l’altra fetta della popolazione – laica o islamica – richiedeva e continua a reclamare. Sul tema le carte sono assolutamente mescolate. La spaccatura della nazione, visibilissima e ora pericolosamente armata, non è tanto fra il fronte laico e il meglio organizzato Islam politico, ma fra chi con le preghiere e i programmi cerca di cambiare e il blocco conservatore. In mezzo i politici di professione, vecchi e nuovi, taluni solamente parolai come il sovrastimato Nobel ElBaradei che col sodale Moussa, sono il volto d’un ceto ossequioso coi vecchi potenti e rancoroso coi nuovi che vorrebbero sostituire.
Ma una volta al potere non saprebbero cosa fare se non prendere ordini da Washington o da Riyad come accadeva all’epoca dei rispettivi incarichi all’Aiea e alla Lega Araba. Indicativa è la loro volontà di non misurarsi con le urne. Sostengono d’aver raccolto 22 milioni di firme per inverosimili dimissioni del Capo di Stato, ma non rivendicano le elezioni con cui ricostruire il Parlamento, sciolto d’imperio un anno fa dalla Corte Suprema. La loro richiesta è destabilizzante e pericolosa quanto la refrattarietà dell’attuale presidente (democraticamente eletto) di cambiare registro. In verità quest’ultimo ha invitato in più occasioni gli oppositori a cercare soluzioni comuni per restituire dignità e decoro al Paese, ma essi rifiutano come hanno rigettato gli inviti a entrare nel governo Qandil in occasione del rimpasto dello scorso febbraio e precedentemente di sedere nell’Assemblea Costituente. Un atteggiamento “grillino” per usare il politichese italiota, che paga ancor meno perché, differentemente dal comico populista, la coppia citata più Sabbahi nel Fronte di Salvezza Nazionale non hanno seguito fra le masse giovanili abbrutite dalla disoccupazione. Un malessere cronico che né la Fratellanza né l’opposizione stanno affrontando. E con esso il rilancio dell’economia, dipendente dai prestiti di Fmi, Ue e donatori interessati come le petromonarchie del Golfo.
Per questo la lobby militare può tornare a essere soggetto attivo e determinante, favorendo una riproposizione del passato che per decenni è stato più subordinazione da colonialismo di ritorno che sogno nasseriano.