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Egitto, dallo scontro politico alla guerra civile

Ai massacri di Forze Armate e polizia s’affianca il cecchinaggio omicida di presunti “Comitati di difesa popolare” che trasferiscono lo scontro sul terreno armato. Cecità politica e complicità di noti leader.
A cura di Enrico Campofreda
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E’ sul ponte “12 maggio” del Cairo che si delinea il futuro dell’Egitto voluto dai laici democratici felicemente avvinti ai generali. I mitra che sparano dai tetti e quelli che compaiono nelle mani di qualche manifestante islamico sono il prodromo della guerra civile che si prospetta. Nello scorso dicembre, davanti al palazzo presidenziale di Al-Ittihadiyyah e poi ad Alessandria, s’era fatto fuoco con più rudimentali fucili da caccia, ma la via delle armi è apertissima e vede tanti mercati cui accedere. S’è detto – la certezza tutt’ora manca – che i cecchini di ieri non fossero agenti in borghese bensì miliziani di un neonato “Comitato di difesa popolare”, un organismo voluto dal Fronte di Salvezza Nazionale diretto dalla triade Moussa-Sabbahi-ElBaradei, quest’ultimo ancora una volta dimissionario dal ruolo di vicepremier dopo la mattanza del 14 agosto. Su tali apprendisti stregoni della politica egiziana, a lungo accusatori dei vertici della Fratellanza per gli oggettivi incerti passi di governo ma indisponibili a qualsiasi collaborazione e pur anche a investiture ottenute solo grazie alla malleverìa militare, pesa una buona parte della responsabilità della crisi nazionale. Perché su ogni questione costoro hanno respinto confronto e dialogo, hanno estremizzato i rapporti fra gli egiziani polarizzando al massimo ogni accento del quotidiano.

L’odierno caos fa inchinare tutta la popolazione alla potente casta delle stellette, anche i seguaci laici che l’applaude. Riconduce i cittadini al servaggio verso la lobby militare che decide le sorti del Paese. “Incoronazione” del presidente (per sessant’anni un ex adepto), sorti elettorali, aperture e chiusure del Parlamento, finanziamenti internazionali e gestione degli stessi per l’enorme quantità di attività economiche controllate dalle Forze Armate. Altro che Rivoluzione, Tahrir, vento di libertà e democrazia e pur anche d’islamizzazione, l’Egitto è dei generali come con re Farouk e col sogno nasseriano. Trascorsi trasformati in vita densa dei vizi occidentali, corruzione in testa, e della disponibilità agli interessi d’un colonialismo di ritorno ben oltre il lassismo autoctono descritto nelle pagine di Mahfuz. L’importanza della rivolta egiziana del gennaio 2011 consisteva nella rottura del cerchio della paura con cui i bisogni di chi reclamava pane e libertà apparivano alla luce del sole, superando i timori della repressione di Mubakharat e baltagheyah, la falsità del paternalismo mubarakiano, l’immobilismo e l’incapacità d’un ceto politico poltronista e autoreferenziale. I cairoti dei suburbi poveri laici, islamici e copti trovavano questo comune denominatore che si fondeva col desiderio del ripristino della dignità di tanti lavoratori e anche professionisti dei ceti medi. Per mesi dietro al conflitto fra laicità e islamizzazione è corso il vero leit-motiv di una Primavera rimasta incompiuta: la lotta fra chi voleva cambiare e chi no. Guardando a fondo questo fronte risulta trasversale: progressisti e conservatori vivono in entrambi gli schieramenti perciò si è assistito a una lotta per il potere. Alla Fratellanza bisogna riconoscere che i suoi seggi parlamentari e la presidenza della Repubblica erano frutto d’un voto popolare non di mai verificate petizioni o peggio di smanie golpiste.

Tutto questo è però il passato. La degenerazione sta nell’aver imboccato la via dell’odio verso l’avversario contro cui riversare solo violenza; disquisire su chi abbia per primo acceso la miccia risulta operazione di pura accademia. Il desiderio di polarizzazione e l’incrudirsi dello scontro politico sono stati praticati da entrambi i fronti (laici che boicottavano l’Assemblea Costituente e islamici che accelerarono la stesura della Carta) ma gli assalti alle sedi della Fratellanza, gli scontri fisici e le sparatorie hanno introdotto la via del non ritorno. Nonostante i mesi di tregua in cui Qandil e Morsi, pur fra palesi pecche di conduzione, varavano un nuovo gabinetto invitando personalità laiche a farne parte. Inutilmente. ElBaradei scuoteva la testa e si prestava alla preparazione del golpe bianco di Al-Sisi il cui epilogo sono state piazze tinte di rosso e moschee trasformate in obitori. Mentre qualcuno, magari a insaputa dei leader “utili idioti” inizia i preparativi paramilitari, più che per affiancare l’esercito alla maniera del golpismo sudamericano d’altre epoche, per partecipare alla caccia al Fratello. Ma è sul versante dei colpiti che il simbolo del martirio può non rimanere il solo lenzuolo bianco e trasformarsi in kalashnikov qaedista e autobomba, come in Siria, come sta riaccadendo a Beirut. Forse solo a quel punto si penserà che il fondamentalismo è altra cosa e Morsi poteva essere sostituito semplicemente con nuove elezioni. Elettorato permettendo.

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