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“E questa la chiami uguaglianza?”: perché in Islanda le donne sono in sciopero

Cosa ci dice lo sciopero delle donne in Islanda, contro il gender pay gap e la violenza di genere.
A cura di Jennifer Guerra
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Domani migliaia di donne in Islanda, premier compresa, saranno in sciopero per protestare contro il gender pay gap e la violenza di genere. Non è la prima volta che le islandesi si astengono dal lavoro, dentro e fuori casa, per portare l’attenzione sui loro problemi: nel 1975, quando guadagnavano fino al 75% in meno degli uomini, riuscirono a paralizzare l’intero Paese, portandolo nel giro di pochi anni a diventare un modello per la parità di genere in tutto il mondo. Ora che l’Islanda è al primo posto del Global Gender Gap Report del Forum economico mondiale, con un indice di parità del 91,2%, sente comunque la necessità di rivendicare una ancora maggiore uguaglianza.

Nel 1975, durante il “kvennafrí” (il giorno libero delle donne) partecipò allo sciopero il 90% della popolazione femminile, con più di 25mila donne scese in piazza a manifestare. All’epoca l’Islanda era un Paese profondamente maschilista e, nonostante le donne avessero ottenuto il diritto di voto già nel 1915, non avevano quasi nessuna rappresentante al parlamento. Le poche che lavoravano ricevevano uno stipendio notevolmente inferiore rispetto a quello di un uomo. Lo sciopero fu organizzato dal collettivo femminista delle Redstockings, che per primo ebbe l’idea di usare lo strumento tipico delle rivendicazioni operaie per quelle femminili. L’intero Paese andò in tilt, anche perché molte donne lavoravano come centraliniste telefoniche, e come ricordò in un’intervista Vigdís Finnbogadóttir – eletta Presidente della repubblica nel 1980, la prima al mondo – “Le cose tornarono a essere normali il giorno dopo, ma con la consapevolezza che le donne erano il pilastro della società proprio come gli uomini. Molte aziende e istituzioni si arrestarono completamente e questo dimostrò la forza e l’indispensabilità delle donne, cambiando completamente la mentalità comune”.

Nonostante gli enormi passi avanti fatti dall’Islanda negli ultimi cinquant’anni, le donne non sono ancora soddisfatte. “Kallarðu þetta jafnrétti?”, e questa la chiami uguaglianza?, è lo slogan dello sciopero, che coinvolge per la prima volta anche donne trans e non binarie. “Quando si parla dell’Islanda, se ne parla come un paradiso di uguaglianza di genere”, ha dichiarato Freyja Steingrímsdóttir, una delle organizzatrici, “Ma un paradiso di uguaglianza non dovrebbe avere il 21% di divario salariale e il 40% delle donne che sperimentano violenza di genere o sessuale almeno una volta nella vita. Non è questo ciò a cui ambiscono le donne nel resto del mondo”. Gli obiettivi delle islandesi sono molto pratici: le richieste vanno dall’obbligo di rendere pubblici gli stipendi di tutti i dipendenti delle aziende a una maggiore severità rispetto alla violenza sulle donne.

L’Islanda non è l’unico Paese al mondo a utilizzare lo strumento dello sciopero per le questioni di genere. In Polonia le donne hanno scioperato nel 2016 e nel 2020 per opporsi alle restrizioni sull’aborto, mentre le cilene hanno dato vita a importanti scioperi durante le proteste contro il governo nel 2018. In Francia, ogni anno molte donne smettono di lavorare alle 16:34 del 7 novembre, cioè dal minuto esatto in cui cominciano a lavorare gratis rispetto allo stipendio di un uomo. In Italia, il movimento femminista di Non Una Di Meno organizza ogni anno uno sciopero per l’8 marzo, anche se non si è mai riuscite a raggiungere un’adesione di massa, anche a causa delle reticenze dei sindacati a riconoscerlo. Ma uno sciopero che affronti il tema del gender pay gap anche nel nostro Paese sarebbe importante.

In Italia il divieto di pagare in maniera diversa un uomo e una donna, a parità di mansione, è presente persino nella Costituzione. Nel corso degli anni, poi, questo principio è stato implementato in numerose leggi, l’ultima delle quali risale al 2022. Guardando i dati della Commissione europea, l’impressione è che l’Italia sia messa molto meglio rispetto agli altri Paesi europei, Islanda compresa: le donne guadagnerebbero in media il 4,2% in meno degli uomini, contro una media europea del 13%. Ma se si prende in considerazione l’overall earnings gap, che misura non sulla base della paga oraria, ma dell’impatto di guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione sul reddito medio, ecco che il divario si allarga al 43%, diventando uno dei più alti d’Europa. Il basso gender pay gap italiano della paga oraria si spiegherebbe quindi con il fatto che, in generale, i salari in Italia sono molto bassi e non si creano le condizioni per un divario ampio, che si allarga all’aumentare dello stipendio.

La legge 162 del 2022 ha cercato di affrontare la questione avendo in mente la particolarità italiana, ovvero che sono soprattutto le cosiddette “discriminazioni indirette” a contribuire al gender gap, come ad esempio le modifiche sugli orari di lavoro. Ad aprile del 2023, inoltre, è stata approvata una direttiva europea sul gender gap, che introduce l’obbligo di trasparenza sulle retribuzioni. Al momento, la direttiva riguarda solo le aziende con più di 250 dipendenti e la trasparenza sugli stipendi si applica solo se il divario supera il 5%, ma si tratta comunque di un passo avanti, anche perché per la prima volta le legge riguarda anche le persone non binarie.

Nonostante tutte queste leggi, però, il problema del gender pay gap persiste perché non è soltanto una questione di diritti sul lavoro. Come hanno evidenziato le donne islandesi, collegando il tema alla violenza di genere e al sistema di disparità sociali e culturali, quelle economiche sono soltanto il sintomo di un problema più vasto. Tutte le questioni di genere sono interdipendenti e, che ci si trovi in cima a una classifica della parità di genere come l’Islanda, o molte posizioni più indietro come l’Italia, vanno affrontate tutte insieme affinché le cose cambino, non solo sulla carta. Lo sciopero del 1975 ebbe un effetto straordinario, perché ricordò a tutta la società islandese quanto le donne fossero indispensabili, eppure quanto fosse poco valorizzato il loro contributo. Oggi, anche se tutto il mondo celebra i successi di quel Paese, le donne dimostrano che non si finisce mai di lottare per i propri diritti.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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