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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

“Dovevamo distruggere e sterminare”: ex soldati israeliani raccontano la brutalità delle operazioni a Gaza

Il rapporto di Breaking the Silence fornisce una testimonianza diretta e sconvolgente delle operazioni israeliane a Gaza rivelando una strategia militare che non distingue tra combattenti e civili. Le testimonianze degli ex soldati pongono interrogativi morali e politici, sollevando dubbi sulla giustificazione delle operazioni e sul crescente dissenso interno contro la narrazione ufficiale.
A cura di Francesca Moriero
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In un contesto segnato da anni di guerre e devastazioni, la recente pubblicazione dell'associazione israeliana Breaking the Silence offre una nuova e inquietante prospettiva sulle operazioni militari a Gaza, rivelando una visione intima e dall'interno delle forze armate di Israele. L'associazione, che raccoglie le testimonianze di ex soldati israeliani disillusi dal loro ruolo nelle operazioni militari, ha recentemente pubblicato un rapporto intitolato The Perimeter, un documento che raccoglie le parole di chi ha preso parte, in prima persona, alle operazioni a Gaza e in Cisgiordania e che dipinge un quadro agghiacciante delle conseguenze delle azioni israeliane sulla popolazione civile palestinese. Attraverso testimonianze dirette, alcuni ex soldati raccontano così le proprie esperienze, le strategie adottate durante gli attacchi e le giustificazioni che venivano date per l'intensità delle operazioni. Le loro parole evocano scene di distruzione, sofferenza e frustrazione, riflettendo un conflitto che sembra non lasciare spazio né alla pace né alla ricostruzione.

Un'operazione di distruzione indiscriminata

Le testimonianze raccolte nel rapporto pongono l'accento sulla brutalità dei bombardamenti e sull'estrema indiscriminazione delle operazioni israeliane, che non si limitano a colpire obiettivi strategici, ma mirano a distruggere interi villaggi e quartieri, senza alcuna distinzione tra obiettivi militari e civili. Ciò che emerge da queste voci è insomma un quadro devastante: case distrutte, uliveti secolari sradicati o abbattuti, terre agricole rese completamente inagibili e centri abitati ridotti a cumuli di macerie. Le operazioni sembrano voler cancellare dunque non solo l'infrastruttura materiale, ma l'identità stessa della popolazione palestinese, che trova nelle sue terre la propria radice più profonda. Gaza, come descrivono i testimoni, appare come un territorio ridotto alla polvere, dove ogni angolo sembra essere stato spazzato via dalla furia della guerra. Tra le testimonianze, un soldato racconta come le operazioni militari fossero condotte senza alcuna distinzione tra combattenti e civili: "Non c'era più alcuna differenza tra chi portava un fucile e chi no. La distruzione era totale, l'importante era fare piazza pulita". Un altro testimone, che prima guidava i carri armati, ricorda la sensazione di impotenza di fronte alla devastazione: "Ogni volta che abbattevamo una casa, mi chiedevo se ci fosse davvero qualcosa di strategico in quello, o se stavamo solo sparando nel buio. Sentivo che stavamo facendo male, ma il comando ci diceva che era necessario".

Le radici della violenza: giustificazioni e motivazioni

Il rapporto non si limita tuttavia a documentare la distruzione fisica di Gaza e l'annientamento della sua popolazione, ma si spinge anche a esaminare le motivazioni psicologiche e politiche alla base di tali operazioni. Molti dei soldati intervistati raccontano di come le azioni militari siano state infatti spesso giustificate in nome di un principio di "sicurezza", e attraverso una retorica che mira a dipingere il "nemico" come totalmente "privo di valore umano".

La testimonianza di un ex ufficiale evidenzia come le operazioni siano state motivate anche da un forte senso di vendetta e da un desiderio di "punire" collettivamente la popolazione palestinese per le azioni di Hamas. "Ci dicevano che ogni palestinese, anche se non armato, doveva essere visto come una minaccia. Ogni casa distrutta, ogni quartiere ridotto in macerie, era visto come un piccolo passo verso la sicurezza di Israele. Eravamo convinti che non fosse possibile fare distinzioni, che l'unica strada fosse distruggere tutto e tutti. Non importava chi fosse coinvolto".

Un approccio, dunque, improntato a una logica distruttiva, piuttosto che difensiva, dove la popolazione civile veniva vista semplicemente come ostacolo alla realizzazione degli obiettivi strategici israeliani.

Pulizia etnica ed esodo forzato

Un tema ricorrente nelle testimonianze è poi l'esodo forzato dei palestinesi, costretti a fuggire dalle proprie case per sfuggire alla morte o alla devastazione. Le descrizioni parlano di un'espulsione sistematica dalla terra, con i soldati che, spesso senza pietà, impedivano ai civili di rimanere o di far ritorno nelle proprie abitazioni. Secondo quanto si legge nel rapporto, le operazioni militari sono state accompagnate da un'azione deliberata di annientamento fisico e culturale, che ha colpito anche luoghi storici e di culto. Un ex soldato, che ha preso parte alle operazioni nel sud di Gaza, ricorda: "Vedevamo le famiglie cercare di fuggire, ma non avevamo il permesso di lasciarle passare. Ci dicevano di non preoccuparci di loro, che tanto avrebbero dovuto andarsene comunque. Alcuni di noi avevano pietà, ma non c'era nulla che potessimo fare. Erano solo ordini da seguire". Molti dei militari, che successivamente si sono dissociati dalla loro partecipazione agli eventi, raccontano di come le operazioni fossero strutturate per creare una Gaza deserta, dove la presenza palestinese doveva essere ridotta al minimo, se non eliminata del tutto. Una pulizia etnica mascherata da conflitto armato.

Il quadro morale e le implicazioni politiche

Il rapporto di Breaking the Silence non si limita insomma a raccontare solo i fatti, ma solleva interrogativi morali e politici di grande rilevanza. Le testimonianze raccolte offrono certo uno spaccato diretto della realtà sul terreno, ma pongono anche domande difficili su come le operazioni militari israeliane stiano distruggendo la società palestinese e influenzando, in parte, anche la coscienza collettiva israeliana. Gli ex militari descrivono azioni che vanno oltre la legittima difesa, trasformando le azioni sul campo in attacchi indiscriminati contro i civili, mettendo in discussione la giustificazione stessa di queste operazioni e la moralità di un conflitto che non distingue tra obiettivi militari e una popolazione innocente. Le implicazioni politiche diventano evidenti, rivelando un crescente distacco tra le politiche del governo di Benjamin Netanyahu e il dissenso interno, in particolare tra i soldati che hanno partecipato alle operazioni: un rapporto che sembra infrangere la narrazione ufficiale del conflitto in corso, sollevando dubbi sulle politiche di "sicurezza" israeliane e sulle loro gravi violazioni del diritto internazionale.

"Abbiamo agito come se non ci fosse altra scelta, come se la nostra sicurezza fosse l'unica cosa che contava", ha dichiarato un ex soldato. "Ma oggi, guardando indietro, mi chiedo se il prezzo che abbiamo pagato non sia stato troppo alto".

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