A ogni crisi umanitaria, sociale e politica che colpisce il Medio Oriente o ogni volta che un fatto di cronaca ha a che fare con l’immigrazione, anche di fronte alla catastrofe e al dolore più inspiegabili, qualcuno troverà sempre il tempo di prendersela con le femministe. Dai post indignati e provocatori delle destre conservatrici ai dibattiti che mettono strumentalmente a confronto la presunta inutilità delle battaglie nostrane (ddl Zan e linguaggio inclusivo su tutte) con quelle che contano davvero, “Dove sono le femministe?” è la più abusata delle domande retoriche.
Chi la pone di solito non ha molta consapevolezza di chi siano o cosa facciano le persone impegnate nel movimento delle donne: innanzitutto non sono né un’associazione di volontariato che ha i mezzi e le competenze per intervenire in situazioni di conflitto né un partito che segue un leader o un’agenda politica. Il femminismo è infatti una pratica di rivendicazione e affermazione di diritti portata avanti da singole donne e uomini, ciascuno con le proprie idee e istanze, ma che messe insieme fanno un movimento che si riconosce in un fine ultimo, che è l’abbattimento del sistema patriarcale. Proprio perché parliamo di un sistema dalle radici molto profonde, non c’è una lista di priorità o un programma da seguire.
Il patriarcato si manifesta nella vita delle persone in molte forme, con gradi diversi di intensità e di violenza, e pensare che le sue espressioni più inoffensive non siano comunque da combattere e sovvertire significa non avere ben chiaro come funzionano i cambiamenti sociali. Nel suo classico del pensiero femminista “Il secondo sesso”, la filosofa Simone de Beauvoir affrontava già la questione, confutando la convinzione di moltissimi intellettuali che consideravano già esaurite le battaglie delle donne. Ed era il 1949. In quegli anni, le donne non potevano divorziare, abortire, ricoprire incarichi pubblici, la violenza sessuale era un reato contro la morale e non contro la persona: eppure, per qualcuno, quel che avevano era sufficiente.
C’è poi una questione ulteriore che dimostra l’errore di fondo della domanda: “Dove sono le femministe?”. Non sta alle donne occidentali decidere come debbano emanciparsi quelle afghane. Quando gli Stati Uniti decisero l’intervento in Afghanistan nel 2001, molte esponenti del femminismo americano sostennero l’invasione per “liberare le donne afghane” e appelli di questo tipo si leggevano anche sulle pagine di Ms. Magazine, storica rivista fondata da Gloria Steinem nel 1972. Nonostante le rimostranze dell’associazione afghana Rawa (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) che le accusò di essersi appropriate di oltre vent’anni di lavoro sul campo, molte femministe americane si attribuirono il merito di aver aperto gli occhi all’opinione pubblica sulla condizione femminile sotto il regime talebano, spronando l’intervento degli Stati Uniti. Oggi il risultato di quegli avvertimenti lo abbiamo sotto gli occhi: i cambiamenti culturali, il progresso e i diritti non possono essere esportati o imposti dall’alto. Anche durante l’occupazione americana le donne hanno continuato a subire violenza e soprusi e, ora che le truppe se ne sono andate, la situazione è peggiore di prima.
Come ha scritto la sociologa Sara R. Farris nel suo libro “Femonazionalismo”, la retorica conservatrice usa le donne musulmane come “sineddoche per lo stereotipo europeo occidentale della donna Altra”. I giornali contribuiscono a diffonderne un’immagine di passività e arretratezza, mostrandoci donne velate, anonime e tristi. Per gli Occidentali non c’è alcuna differenza tra una persona e l’altra e non ci passa nemmeno per la testa l’idea che queste donne non stiano aspettando che qualche benevola mano europea o americana tolga loro il burqa o l’hijab, che probabilmente nemmeno saprebbe distinguere. Agire in senso femminista non significa decidere per queste donne quale sia il modo migliore per emanciparsi o a quale modello di liberazione debbano aspirare, ma sostenerle nella loro lotta e nella loro autonomia. Questo senso profondo di autodeterminazione definito dalle proprie capacità e dai propri desideri prende il nome di agency.
Infine, ammiccare al silenzio delle femministe – più presunto che reale – pone anche il rischio di ignorare ciò che accade quotidianamente nel nostro Paese, rinforzando l’idea che i problemi siano ben altri e che, soprattutto, non riguardino noi. Pensare che la misoginia e il maschilismo siano problemi di terre lontane e a nostro giudizio medievali, ci assolve dal riconoscere e combattere le violenze e le discriminazioni che subiscono le donne intorno a noi, ogni giorno. Da queste premesse, la pretesa che “le femministe” si occupino di ciò che accade dall’altra parte del mondo, come se avessero il potere di farlo, suona ancora più assurda.
Quindi l’unica risposta possibile alla domanda “Dove sono le femministe?” è che le femministe sono a fianco delle donne afghane, pronte a sostenerle con i loro mezzi sul territorio e a fare pressione nelle piazze affinché vengano istituiti dei corridoi umanitari. E anche se questi sforzi dovessero essere vani, sarebbero sicuramente più utili che il solito post indignato.