Donald Trump, l’ultimo ostacolo è il suo partito
Il 16 giugno del 2015, Donald Trump, magnate e volto televisivo americano, ufficializzava alla Trump Tower di New York che avrebbe partecipato alle primarie per il partito repubblicano, per rendere l'America "Great Again". Lo stile era quello a cui tutti gli americani erano già abituati, un mix di ricchezza, arroganza e fama: c'era bisogno di qualcuno veramente ricco per sollevare le finanze americane, aveva detto, e quello veramente, veramente ricco era lui.
Già nel 2000 e nel 2012 il miliardario newyorkese aveva più volte annunciato che si sarebbe candidato per la presidenza, senza mai farlo. Così, i giorni dopo, media e politica si erano occupate soprattutto di capire se questa volta andava preso sul serio, mentre Donald Trump già si prodigava nell’attaccare senza mezzi termini Jeb Bush, il candidato appoggiato dall’establishment del partito. All’interno dello stesso partito, sotto un velo preoccupazione che ai tempi derivava soprattutto del fatto che Trump avrebbe potuto allontanare gli elettori moderati e prendersi l’attenzione mediatica, il sentimento prevalente era quello di diffidenza.
Il partito repubblicano in cui Donald Trump si candidava, prima di tutto, era già un partito in forte difficoltà. Se Donald Trump ha fatto parlare di sé mettendo in discussione il fatto che Barack Obama fosse cittadino americano già nel 2011, e ha poi costruito la sua politica estera sull’idea di ergere un muro tra USA e Messico, non è stato l’unica voce a parlare in questi termini all’interno del partito. Già da tempo i repubblicani – tra connubi con il tea party, la difesa delle armi e i toni duri contro l’immigrazione – usavano il populismo per attrarre i voti della classe media arrabbiata e diffidente, facendo prevalere sempre di più il suo carattere radicale e populista.
Da una parte è il grande gioco delle politiche americane: spingersi all'estremità dello spettro politico in vista delle primarie per guadagnare il voto dello zoccolo duro per poi tornare verso il centro per le elezioni generali. Solo che il partito repubblicano già da tempo si era da tempo spinto troppo a destra, e la candidatura di Donald Trump, come del resto anche del radicalissimo Ted Cruz, ne sono state la dimostrazione.
Da quella candidatura sono passati quasi dieci mesi, e questo periodo è bastato a Trump per distruggere le regole del politicamente corretto e ribaltare completamente la scena della politica americana – e forse addirittura occidentale– così come la conoscevamo. Il magnate newyorkese ha devastato uno dopo l’altro avversari e logiche politiche, facendo pensare ogni volta di essersi spinto troppo in là per poi smentire tutti al momento del voto, insultando a turno avversari, immigrati, disabili, donne, e chiunque gli si opponesse.
Soprattutto, Donald Trump ha imparato a essere preso sul serio dal suo partito che, sempre più diviso, da mesi cerca disperatamente strategie per fermare la sua ascesa.
Le voci di dissenso nei confronti di Donald Trump si alzano con insistenza crescente da mesi ed erano apparse palesi quando, a fine febbraio, il senatore repubblicano Trent Franks, aveva fatto circolare una lettera nella quale chiedeva a uno dei due candidati che sembravano più forti, Marco Rubio e Ted Cruz, di ritirarsi dalla corsa per il bene dei repubblicani.
L’appello non aveva sortito l’effetto desiderato, come del resto ogni tentativo da parte dei repubblicani di fermare il ciclone Trump affidandosi ad un altro candidato interno al partito.
II partito repubblicano, ha infatti appoggiato dall’inizio di queste primarie Jeb Bush, ritiratosi dalla corsa dopo la sconfitta in South Carolina, Marco Rubio – da sempre considerato il candidato più talentuoso e moderato ma che non è mai riuscito a decollare – il governatore dell’Ohio John Kasich – reduce da un successo in Florida e ultima speranza dei repubblicani, e addirittura il radicale Ted Cruz – al momento il più vicino a Donald Trump. Praticamente chiunque, per scongiurare la possibilità di una vittoria di Trump, senza che l’appoggio si sia riflettuto in alcun modo sul risultato di ogni primaria.
A provare a rallentare la corsa di Donald Trump è stato il turno di voci storiche del partito, quali McCain – ex candidato repubblicano nel 2008 contro Barack Obama – e Mitt Romney, che ha sfidato lo stesso nel 2012. Entrambi, a inizio marzo, hanno messo in dubbio la serietà e l'etica di Donald Trump, hanno fatto appello agli americani perché non lo votassero, e parlato degli effetti disastrosi cdi una sua eventuale vittoria.
Fallito ogni tentativo politico di fermare Trump – la cui vittoria oggi alle primarie, dopo New York, se non scontata di sicuro si può dire che non sorprenderebbe più nessuno – ricorrendo alla politica, da inizio marzo si sono succedute voci che volevano i repubblicani in fremito alla ricerca di piani per fermare il miliardario, tra riunioni segrete, candidati di emergenza, lobbying, e campagne pubblicitarie anti-Trump miliardarie.
Se per adesso i nomi che erano stati fatti per contrastare Trump non si sono detti disponibili, da tempo si parla della costituzione di un partito indipendente, con un candidato alternativo a Donald Trump in caso questo vincesse. Benché sia troppo presto per parlare di questa prospettiva, non sarebbe l’unica che il partito sta considerando per evitare una vittoria di Trump. A quanto riportano i giornali statunitensi, infatti, i repubblicani starebbero preparando una campagna di 100 giorni che mirerebbe a dissuadere uno ad uno i candidati repubblicani dal sostenere Trump. Inoltre, parte del piano, sarebbe una campagna miliardaria già iniziata da parte di alcuni donatori per convincere gli elettori a votare Ted Cruz, presentata come unica possibile opzione.
A pochi mesi dalla fine di questa corsa e con Trump con più della metà dei delegati che gli servono per vincere e una distanza importante dal secondo classificato Ted Cruz, quella dei repubblicani di fermare il loro outsider appare sempre più una missione impossibile. Ad oggi, l’unica cosa certa è che il partito repubblicano – storicamente solido e unito – appare diviso come non mai, e crescono le voci di dissenso di repubblicani che dichiarano di non essere disposti a votare Donald Trump anche in caso di una sua nomina– come del resto anche Donald Turmp ha dichiarato che non sosterrebbe un altro candidato, andando contro le regole a cui aderiscono i partecipanti alle primarie.
Intanto, mentre il partito repubblicano è impegnato in questa sua lotta, pare che Hillary Clinton sia già proiettata verso il futuro, ed abbia già pronto un programma per sconfiggere Donald Trump.
Mentre infatti sul fronte repubblicano rimane ancora un piccolo spazio per immaginare dinamiche diverse – anche se sinceramente più per il personaggio che per l’aritmetica –dal partito Democratico c’è sempre più la sensazione che i giochi siano fatti e che Hillary potrebbe avere presto la certezza della sua nomina a presidente.
Per il resto non rimane che aspettare e vedere se il partito repubblicano ha in serbo altre sorprese, ma soprattutto se l’uragano Trump, dopo aver già demolito pronostici e avversari, continuerà a prender forza e costituirà un problema anche per l’avversario democratico.