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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Dal pogrom di Hamas del 7 ottobre alla risposta israeliana: quale scenario per la guerra in Medio Oriente

In Medio Oriente dal 7 ottobre 203 le azioni militari non hanno conosciuto sosta mentre dal punto di vista diplomatico, la possibile soluzione dei “due Popoli, due Stati” rimane al momento difficile, considerate le posizioni contrarie che hanno sia Hamas che una parte politica israeliana.
A cura di Luigi Chiapperini
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Cosa possono aver provato i partecipanti ad un concerto organizzato nel deserto israeliano in un giorno di festa mentre, circondati dagli amici di sempre, hanno iniziato a sentire tra le note di un brano musicale tanto amato anche le raffiche di decine di armi da fuoco e a vedere cadere al suolo, sanguinanti, i loro amici e tanti altri ragazzi, tutti riuniti lì per vivere una giornata in serenità?

Come si saranno sentite quelle persone mentre tentavano di fuggire disperatamente verso un riparo qualunque, tra urla e spari, inseguiti da motociclette e auto con a bordo uomini mascherati e armati che volevano colpirli a morte?

Cosa avranno provato quelle famiglie che si apprestavano a trascorrere un nuovo giorno mentre scorgevano dalla finestra uomini incappucciati che dopo aver ammazzato nel cortile il loro cane correvano minacciosamente verso l’uscio di casa? Come si saranno sentiti quei mariti mentre sotto la minaccia delle armi erano costretti ad assistere alle violenze sessuali perpetrate sulle mogli e sulle figlie?

Cosa sarà passato per la mente di quelli presi come ostaggi, legati e caricati a forza su auto e motociclette e che, mentre si allontanavano dalla casa in fiamme, lanciavano un ultimo sguardo disperato sperando che i bambini che erano riusciti a nascondere nelle camere blindate non morissero soffocati dal fumo o arsi vivi dalle fiamme?

Probabilmente provavano lo stesso terrore della popolazione palestinese costretta da Hamas a rimanere nelle proprie abitazioni mentre Gaza viene bombardata dagli israeliani che conducono l’operazione “Spade di ferro” e lo stesso sbigottimento dei civili israeliani che subiscono da decenni il lancio di missili e razzi provenienti da ogni dove.

Atti barbarici, quelli messi in atto da Hamas e da altri gruppi terroristici il 7 ottobre 2023 con l’operazione “Alluvione Al-Aqsa”, ai quali neanche nelle più rischiose missioni militari all’estero abbiamo mai assistito e paragonabili solo ai gesti efferati perpetrati dai terroristi dello Stato Islamico. Insomma un vero e proprio pogrom che provocò la morte di 1.200 civili e militari israeliani. Di altre 200 persone non si conosce ancora il destino e si considerano disperse.

Circa 250 individui di ogni età, tra i quali 30 bambini, furono portate in abitazioni e in tunnel all’interno della Striscia di Gaza come ostaggi. Di questi, alcuni sono stati ammazzati dai carcerieri, altri sono stati scambiati con alcuni prigionieri palestinesi, mentre altri ancora sono stati liberati dalle forze speciali israeliane. Invece ancora non si conosce la sorte di circa una quarantina di ostaggi.

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Nei mesi precedenti al 7 ottobre dello scorso anno stavamo assistendo ad una situazione di apparente calma in Medio Oriente. Israele aveva faticosamente avviato il dialogo con le nazioni del cosiddetto arco sunnita, in particolare con l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania, ma sullo sfondo rimaneva irrisolta la questione palestinese sia per l’intransigenza di alcuni partiti “estremisti” israeliani sia per la posizione assertiva e fortemente anti israeliana dell’Iran e dei suoi proxy, questi ultimi costituiti da una pletora di paesi e gruppi armati, quasi tutti di ispirazione sciita, aventi come obiettivo dichiarato la distruzione di Israele.

La distensione ricercata da Israele con i paesi sunniti costituiva una sorta di inaccettabile legittimazione del paese ebraico e pertanto risultava necessario scardinare in qualche maniera quel processo di pace, considerato nefasto, avviando anche violentemente una nuova fase di crisi la cui data di inizio si può far coincidere proprio con il 7 ottobre 2023.

In tal senso vanno inquadrati non solo l’operazione Alluvione Al-Aqsa di Hamas, ma anche quelle condotte dai miliziani di Hezbollah e Amal dal Libano, degli Houti dallo Yemen, dei miliziani sciiti dall’Iraq e dalla Siria oltre che le azioni di formazioni minori ma altrettanto pericolose all’interno e all’esterno di Israele. Ciò ha prodotto una situazione pericolosa ed intollerabile per Tel Aviv che pertanto, sulla base dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite che consente l’uso della forza per la tutela individuale e collettiva, durante l’intero anno trascorso ha condotto operazioni militari contro chiunque lo attaccasse.

Anche la “resistenza” palestinese può essere inquadrata nel diritto all’autodifesa previsto dall’ONU, ma c’è da sottolineare il metodo quanto meno discutibile con cui viene esercitato. Un conto è colpire obiettivi militari causando pur dolorosi danni collaterali, un altro è scegliere di eliminare deliberatamente civili indifesi come tragicamente avvenuto il 7 ottobre 2023. Si tratta di una differenza sostanziale che ad alcuni sfugge, una linea sottilissima e labile tra ciò che in guerra si può considerare legittimo e ciò che può essere accettato come moralmente giusto.

Mentre molto si è detto e tanto si è criticato in relazione alla risposta determinata e massiccia di Israele, meno risalto è stato dato al pogrom di Hamas e alla pletora di attacchi dell’Iran e dei gruppi ad esso collegati. In pratica, Hamas ha condotto in maniera spregiudicata anche una guerra mediatica che si può dire abbia vinto. Mentre infatti il portavoce palestinese divulgava tempestivamente notizie riguardanti presunte stragi effettuate dagli israeliani su obiettivi civili (anche quando, come nel caso dell’ospedale battista, si trattava di evidenti danni collaterali causati da razzi malfunzionanti degli stessi miliziani di Hamas), Israele tardava a smentire quelle dichiarazioni in quanto impegnato nell’investigare sulla esatta dinamica degli accadimenti. Quando poi arrivavano quelle smentite, anche se accompagnate da prove evidenti, era già troppo tardi. Parte dell’opinione pubblica mondiale si era già orientata a favore di Hamas.

Stesso discorso riguarda i numeri spropositati dei civili uccisi nei bombardamenti israeliani forniti puntualmente dal ministero della salute palestinese il quale, pur correggendosi successivamente portando le cifre al ribasso e senza mai specificare quanti di quei morti fossero uomini in armi, viene ancora considerato da molti una fonte attendibile. Israele invece è stato molto più timido, meno proattivo e quindi meno efficace mediaticamente. Ad esempio tante tragiche immagini del pogrom del 7 ottobre 2023 non sono mai state rese pubbliche per volere dei familiari che intendevano rispettare la memoria dei propri cari oppure volevano evitare conseguenze nefaste ai parenti tenuti ancora in ostaggio.

Non si vuole qui escludere che Israele non abbia alcuna colpa. Errori ne avrà commessi e probabilmente avrebbe potuto fare qualche sforzo in più per minimizzare i danni collaterali. Ma c’è anche la certezza che nel caso in cui qualcuno avesse commesso errori violando il diritto umanitario, i presunti responsabili sarebbero posti sotto indagine con tutte le conseguenze del caso.

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Fatto sta che in Medio oriente dal 7 ottobre 203 le azioni militari non hanno conosciuto sosta mentre dal punto di vista diplomatico, la possibile soluzione dei “due Popoli, due Stati” rimane al momento difficile, considerate le posizioni contrarie che hanno sia Hamas che una parte politica israeliana. Entrambi si mantengono su posizioni estremiste ed intransigenti e aspirano ad un solo Stato “dal fiume al mare”, naturalmente sotto bandiere diverse. In questa situazione la giusta aspirazione palestinese ad avere un suo Stato rimane frustata.

La situazione rimane quindi ancora molto tesa e di difficile dipanatura. Israele ha il controllo di gran parte della Striscia di Gaza e ha degradato di molto le capacità operative di Hamas decapitando in più occasioni i suoi vertici politici e militari. Nello stesso tempo ha tentato di disarticolare la struttura di comando, controllo e comunicazioni anche di Hezbollah in Libano, riuscendo ad eliminare anche il suo leader storico Nasrallah. Inoltre ha reagito già una volta a seguito di un massiccio attacco missilistico portato dall’Iran sul territorio israeliano lo scorso aprile.

Proprio a seguito dell’uccisione del capo di Hezbollah a Beirut e per dimostrare, se mai ce ne fosse stato bisogno, la sua vicinanza al Partito di Dio, a inizio ottobre gli ayatollah hanno condotto un secondo attacco contro Israele con quasi duecento missili balistici. Quest’ultimo gesto, di particolare gravità, dal punto di vista di Teheran era appunto necessario per rassicurare tutti i suoi proxy che continuerà a supportarli specialmente nei momenti più difficili. Peraltro più che un atto di forza volto ad annichilire Israele sembrerebbe un gesto dettato dalla frustrazione per i continui manrovesci subiti dal suo asse in Medio Oriente e soprattutto per dimostrare all’interno della ex Persia, dove l’opposizione al regime sembra aver rialzato la testa, di avere ancora la situazione sotto controllo.

La risposta anche a questo attacco non si farà attendere poiché Israele intende verosimilmente continuare a dimostrare che la soluzione dei problemi mediorientali non sta nella distruzione dello stato ebraico, perché ciò non sarà possibile. L’unica via è quella del dialogo in linea con quanto realizzato con l’arco sunnita grazie in particolare agli Accordi di Abramo. Idealmente sarebbe auspicabile percorrere la medesima strada con la galassia sciita iraniana ma con gli ayatollah ancora al potere il percorso appare arduo.

Risulta quanto mai difficile infatti dialogare con chi, come la guida suprema Khamenei, considera legittimo il pogrom del 7 ottobre dello scorso anno. Un interlocutore di cui quindi Israele diffida specialmente quando dalla sua bocca, nel sermone della cerimonia funebre del defunto capo di Hezbollah Nasrallah, escono parole che implicitamente confermano che è Israele ad essere sotto attacco e non viceversa.

In sintesi l’ayatollah ha dichiarato che grazie alla lotta dell’asse sciita il regime “sionista” è tornato indietro di 70 anni poiché ora sta lottando per sopravvivere come al momento della sua fondazione. Una dichiarazione di colpa, la sua, che a molti sembra essere sfuggito.

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Generale di Corpo d'Armata in quiescenza dei lagunari Luigi Chiapperini, membro del Centro Studi dell’Esercito, già pianificatore nel comando Kosovo Force della NATO, comandante dei contingenti nazionali NATO in Kosovo nel 2001 e ONU in Libano nel 2006 e del contingente multinazionale NATO in Afghanistan nel 2012, coautore del libro “Geopolitica e Strategia” (Edizioni Artestampa, 2024).
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