“Non intendiamo mollare”: la Novaya Gazeta in qualche modo andrà avanti, fanno sapere dalla redazione dopo la decisione di una corte moscovita di revocare la licenza al giornale fondato dal premio Nobel per la pace Mikhail Gorbaciov e diretto dal premio Nobel per la pace Dmitri Muratov. E nelle stesse ore in cui i giudici di Vladimir Putin liquidavano formalmente il simbolo di quella che fu la libertà di stampa in Russia, il giornalista Ivan Safronov mandava al diavolo il magistrato che gli proponeva di confessare in cambio di una pena minore e veniva condannato a 22 anni di galera per “tradimento” — in un processo che i suoi difensori, forti anche delle rivelazioni della Bbc e del news outlet investigativo Proekt, considerano una farsa.
Le due sentenze raccontano di una sorta di “soluzione finale” perseguita per il giornalismo indipendente e per le libertà civili da parte di un regime autoritario che sta rapidamente assumendo caratteri tipici del totalitarismo. Si prospettano tempi ancora più duri, per chi resiste. Ma la resilienza di chi viene colpito e la risposta positiva del pubblico all’informazione di qualità che ancora esiste fanno pensare che la partita non sia definitivamente chiusa.
“Siamo solo all’inizio”
“La motivazione del provvedimento giudiziario contro la Novaya Gazeta è soltanto politica”, è l’unico laconico commento pubblico di Muratov. ”Andrà sempre peggio, ho l’impressione che siamo solo all’inizio”, aggiunge una persona che collabora strettamente col direttore. “Ci aspettiamo che la repressione e l’attacco ai giornalisti si inaspriscano. Intanto, stiamo passando giorni tristi: la morte di Gorbaciov, poi questo”.
Senza più licenza, spiega la nostra fonte — che ci chiede di rimanere anonima —, “non potremo pubblicare più niente come Novaya Gazeta, nemmeno sull’attuale sito online”. Per questo si pensa a un nuovo sito con un nome diverso. “Decideremo tutto alla svelta, di certo non ci rassegniamo. Il 15 settembre probabilmente saremo di nuovo in rete”.
La giornalista di punta della Novaya, Elena Milashina, da noi raggiunta al telefono nel luogo segreto fuori dalla Russia dove si trova per ragioni di sicurezza, non ha voluto commentare sul futuro della testata. Ma ha già annunciato articoli clamorosi. Uno sul leader ceceno Razman Kadyrov, che probabilmente sarà presto sostituito al vertice della repubblica caucasica. Milashina è considerata l’erede di Anna Politkovskaya, assassinata con quattro colpi di pistola nell’ascensore di casa il 7 ottobre del 2006 — giorno del compleanno di Putin — per essersi occupata troppo della Cecenia. Era la sua compagna di scrivania. Ci vuole fegato a lavorare per il giornale di Dmitri Muratov.
La vendetta dell’Fsb
"Questa sentenza contro di me dimostra che il lavoro giornalistico oggi in Russia è considerato un crimine": Ivan Safronov non l’ha mandata a dire, nelle dichiarazioni davanti al giudice che lo ha riconosciuto colpevole di tradimento per “aver raccolto informazioni militari segrete e averle divulgate o passate a spie straniere”. L’imputato ha resistito durante mesi alle pressioni degli investigatori per una confessione.
Metodo Andrei Vyshinsky, il grande accusatore delle purghe staliniane. Alla vigilia del verdetto hanno offerto a Safronov "solo" 12 anni di prigione invece di 24, se avesse ammesso i suoi presunti crimini. “Ha risposto di no in modo parecchio duro”, hanno raccontato i suoi avvocati. Alla fine il giudice gli ha abbonato due anni sulla pena da tempo decisa a tavolino. Bontà sua.
Il condannato è uscito dall’aula a testa alta per andare a scontare la lunghissima detenzione, mentre i suoi sostenitori gridavano “libertà”. C’è ancora chi resiste, in Russia. “Safronov non ha infranto alcuna legge”, dicono i suoi legali. Il processo è stato la vendetta dell’Fsb per un articolo sulla vendita di cacciabombardieri russi all’Egitto scritto dal giornalista per il quotidiano Kommersant nel 2019, secondo il servizio in lingua russa della Bbc che cita la corrispondenza fra funzionari dei due Paesi coinvolti.
L’articolo provocò uno scandalo diplomatico e fece fare una figuraccia al servizio di sicurezza erede del Kgb sovietico.
“Un bravo giornalista”
Ivan Safronov ha 32 anni. Figlio di un giornalista famoso, come il padre si è specializzato nel settore della difesa, che ha coperto per Kommersant e per un altro prestigioso quotidiano di taglio economico-finanziario, Vedomosti. Quando dovette dare le dimissioni per un articolo che non era piaciuto a un pezzo grosso del regime, l’intera redazione di Kommersant si mise in sciopero. Un professionista molto rispettato, dicono i suoi ex colleghi. Ottimi contatti nelle forze armate e nell’industria militare.
“I suoi guai giudiziari sono dovuti solo al fatto che è un bravo giornalista che ha fatto bene il suo lavoro”, sostiene il direttore di Dozhd Tv Tikhon Dzyadko, raggiunto al telefono da Fanpage.it a Riga, in Lettonia — dove l’emittente indipendente russa ha spostato redazione centrale e studi dopo l’oscuramento da parte del governo di Mosca.
Gli atti del procedimento sono secretati, ma Proekt ha pubblicato una copia del rinvio a giudizio dimostrando con una sua investigazione come i “segreti di Stato” per la cui divulgazione Safronov è poi stato condannato siano disponibili online senza restrizione alcuna. Segreti di Pulcinella. L’affermazione di Putin secondo cui le presunte malefatte fossero legate a un breve periodo di lavoro di Safronov presso l’agenzia spaziale Roscosmos è stata successivamente smentita e definita “un lapsus” dalla stessa amministrazione presidenziale. Accuse confuse.
Era dal 2001 che un giornalista non veniva condannato per tradimento in Russia. In quell’occasione il reporter Grigory Pasko, si beccò quattro anni dopo aver scritto che la marina militare aveva commesso una serie di reati ambientali.
“Il caso Safronov è un segnale per tutti i giornalisti e soprattutto per quelli che si occupano di difesa”, ha commentato sui social Yevgeny Smirnov, del collegio difensivo. Che ha subito pressioni “senza precedenti”. Due degli avvocati di Safronov hanno dovuto rifugiarsi all’estero per evitare persecuzioni. Un altro è stato arrestato per “discredito delle forze armate russe”.
Deriva totalitaria
“La sentenza contro Safronov e il ritiro della licenza alla Novaya Gazeta sono eventi che testimoniano come nel sistema siano ormai presenti elementi totalitari, dice a Fanpage.it da Mosca l’esperto di politica interna russa del think tank Carnegie Andrei Kolesnikov: “Una condanna pesantissima per non aver fatto niente di illegale, in modo da dare une lezione a chiunque osi toccare parti delicate e sensibili del regime. Tipico di un totalitarismo. Così come la liquidazione formale del giornale simbolo di quella che fu la libera stampa in Russia”.
L’attacco all’informazione indipendente è iniziato fin dal primo mandato di Putin, quando tra il 2000 e il 2001 fu riportata sotto il controllo statale l’emittente Ntv. È continuato durante gli anni. Fare i giornalisti nel Paese più grande del mondo è pericoloso.
Da quando l’attuale presidente è al potere ne sono stati ammazzati 25, secondo i dati della commissione internazionale Cpj. E in 21 casi non si è risaliti a colpevoli e mandanti. Evidentemente le indagini sugli omicidi che colpiscono la categoria non sono una priorità, per la giustizia dello zar.
Dopo l’invasione dell’Ucraina l’accelerazione dell’offensiva contro i media ancora liberi è stata fulminante: il governo li ha chiusi proprio tutti. Ha bloccato oltre 5.000 siti web e alcuni dei maggiori social network. Chi vuole informarsi anziché farsi lavare il cervello dalla Tv di Stato, deve avere un’applicazione Vpn che permetta di oltrepassare le barriere imposte alla rete. Oppure andare su YouTube, che resta per ora accessibile.
Le nuove leggi secondo cui chi parla della guerra in Ucraina e della politica del governo in modo difforme dalla versione ufficiale del Cremlino rischia fino a 15 anni di prigione hanno fatto fuggire all’estero migliaia di professionisti dell’informazione. “Se voglio fare ancora la giornalista non posso che lavorare da fuori della Russia”, ci diceva nel maggio scorso la popolare conduttrice radiofonica Tania Felgenhauer mentre faceva le valige, stanca delle intimidazioni subìte dai propagandisti del regime, delle minacce rimaste impunite e del pericolo di essere arrestata.
Felgenhauer nel 2017 fu accoltellata alla gola da uno squilibrato. Poco prima era stata attaccata verbalmente sulla Tv di Stato dal presentatore Vladimir Solovyov. “Solo una coincidenza”, dice. Ma certo il clima creatosi intorno a lei non era dei migliori.
Secondo Tikhon Dzyadko, “la situazione nel prossimo futuro peggiorerà ulteriormente, non solo per i giornalisti ma anche per gli attivisti politici, per chi si occupa di diritti umani, per gli avvocati e in generale per chi intende agire e comunicare in modo indipendente”. Finché non ci sarà un cambiamento di regime, il giornalismo russo potrà operare liberamente solo dall’estero, spiega il direttore di Dozhd Tv.
“Da quando siamo stati costretti a trasferire le nostre operazioni fuori dalla Russia vediamo che a moltissimi nostri concittadini importa solo la qualità e l’indipendenza dell’informazione. E di questo ci ringraziano, anche se la nostra sede è altrove”. Dozhd Tv ha una audience media giornaliera di sei milioni di persone in Russia, sottolinea Dzyadko. La richiesta di giornalismo vero è forte. La società civile esiste ancora. La libertà di stampa sta perdendo tutte le battaglie, nel regno di Putin. Ma potrebbe finire per vincere la guerra, un giorno.
Giornalista e broadcaster. Corrispondente da Mosca a mezzo servizio (L'Espresso, Lettera 43 e altri - prima di Fanpage). Quindici anni tra Londra e New York con Bloomberg News e Bloomberg Tv, che mi inviano a una serie infinita di G8, Consigli europei e Opec meeting, e mi fanno dirigere il servizio italiano. Da giovane studio la politica internazionale, poi mi occupo di mostri e della peggio nera per tivù e quotidiani locali toscani, mi auto-invio nella Bosnia in guerra e durante un periodo faccio un po' di tutto per l'Ansa di Firenze. Grande chitarrista jazz incompreso.