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Opinioni

Cos’è la Dichiarazione di Pechino firmata da Hamas e Fatah e quale sarà il ruolo della Cina in Palestina

Dopo aver riunificato diplomaticamente Iran e Arabia Saudita, la Cina si ritaglia ancora più il ruolo di mediatore globale e, con la “Dichiarazione di Pechino”, prova a riunire Hamas e Fatah mentre Netanyahu è negli Usa. A cosa ambisce la Cina e quali sono le potenzialità e le criticità di questo nuovo accordo di pace.
A cura di Gian Luca Atzori
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Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi durante un incontro con le autorità palestinesi a Pechino
Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi durante un incontro con le autorità palestinesi a Pechino

Era il 4 giugno 2024 quando, nel giorno dell’anniversario per i 35 anni dai fatti di Piazza Tiananmen, il Maestro Li (@whyyoutouzhele) pubblica su X un video in cui mostra raduni pro-Palestina in Cina, come nella scuola superiore di Guizhou dove decine di studenti hanno sfilato con la bandiera palestinese al grido “Free Palestine”. Bandiere apparse anche poco dopo a Pechino, proprio in Piazza Tiananmen, a sostegno di Gaza dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre e in seguito alla reazione israeliana, ormai causa di circa 40 mila vittime dirette (di cui il 70% donne e bambini) e, secondo The Lancet, circa 186 mila morti totali considerando anche le conseguenze indirette.

È sicuramente interessante vedere come due vicende così distanti nello spazio, nel tempo e nella cultura, trovino un denominatore comune. In particolare, è interessante notare la reazione governativa che, se da una parte tende a oscurare le celebrazioni di Tiananmen e i legami tra il 4 giugno 1989 e la situazione palestinese, dall’altra si fa promotore della causa palestinese e del cessate il fuoco.

La dichiarazione di Pechino

Dal 21 al 23 luglio infatti a Pechino, il Ministro degli Esteri Wang Yi ha ospitato diverse fazioni politiche palestinesi, tra cui i rivali Hamas e Fatah, siglando quella che sui media cinesi ha preso il nome di “Dichiarazione di Pechino”, accordo volto “alla fine delle divisioni e al rafforzamento dell’unità palestinese”. Per il Ministro cinese l’incontro è stato decisivo per condurre verso “la grande riconciliazione e unità di tutte le 14 fazioni. Il risultato principale è che l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) è l’unico rappresentante legittimo di tutto il popolo palestinese. È stato raggiunto un accordo sulla governance del dopoguerra a Gaza e sull’istituzione di un governo provvisorio di riconciliazione nazionale”.

La dichiarazione sostiene che i diversi leader dovranno convergere nella creazione di una tabella di marcia volta all’istituzione di un governo di unità palestinese per organizzare le elezioni e per amministrare la Cisgiordania, Gerusalemme e la Striscia di Gaza.

Olp, Anp, Hamas e Fatah

L’Olp nasce nel 1964 ma nel 1993 con gli “accordi di Oslo” riconosce lo stato israeliano ed è alla base della formazione del governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Dagli anni ‘90, Fatah è il gruppo che controlla l’Olp e l’Autorità palestinese, ovvero il governo ad interim sorto in Cisgiordania con Arafat come primo Presidente. Fatah nacque alla fine degli anni ‘50 in Kuwait e diviene la forza dominante in Palestina dopo la guerra dei sei giorni del 1967. Tuttavia, c’è una lunga storia di conflitti e acredini con Hamas, in quanto per lungo tempo le due parti hanno provato a riconciliarsi. Il governo dell’Anp ha mantenuto il controllo governativo su Gaza fino al 2006, quando Hamas vinse le elezioni legislative e scoppiò la guerra civile.

Da quel momento, Hamas governa Gaza mentre Fatah amministra parte della Cisgiordania. L’ultimo tentativo di riconciliazione tra le parti risale a ottobre 2017 a Il Cairo, con un accordo guidato dall’Egitto. L’accordo avrebbe dovuto dar vita ad un nuovo governo unitario a Gaza, tuttavia è presto sfociato in violenza quando, due mesi dopo la firma, il Primo Ministro dell’Anp, Rami Hamdallah, è stato vittima di un tentato omicidio per cui è stato accusato Hamas.

Il nuovo accordo e le criticità

Il nuovo accordo di questi giorni è la continuazione di un percorso già avviato a Pechino ad aprile ma trova spazio in una situazione locale e globale molto differente dal passato, anche se nuovamente in un momento di picco di tensione tra le due parti: Fatah accusa Hamas di prolungare il conflitto, Hamas accusa Fatah di essere dalla parte di Israele.

Sono infatti numerose le criticità. Prima di tutto, dai commenti di Wang Yi non si comprende quale possa essere il ruolo di Hamas in un accordo per un'organizzazione, l’Olp, di cui Hamas non fa parte. Dubbi che scuotono anche gli esperti politici palestinesi, i quali sono coscienti dei numerosi tentativi e accordi promossi negli ultimi decenni, a partire dall’accordo tra le 14 fazioni siglato in Algeria nel 2002. Tutte intenzioni rimaste solo sulla carta.

Un partecipante palestinese agli incontri di Pechino degli scorsi giorni ha espresso perplessità etichettando l’accordo come troppo generico, silente e incapace di affrontare delle specificità: “Tra i due movimenti sono emerse differenze fondamentali per quanto riguarda la fine della divisione, in relazione all'autorità, alla legge, al possesso di armi legittime e ai metodi di lotta”.

C’è però ancora speranza. Secondo l’avvocato palestinese per i diritti umani Diana Buttu, lo scetticismo è normale ma ci sono anche dei motivi per pensare che la situazione oggi sia differente. Non solo una situazione globale mutata che vede Israele accusato nelle corti internazionali, ma anche la pressione pubblica in numerosi paesi occidentali e l’impegno di una potenza come la Cina, la quale ha già mostrato le sue capacità di riconciliazione in Medioriente tra Iran e Arabia Saudita.

La strategia cinese per la pace globale

Stare dalla parte del sud del mondo, ovvero di quei paesi che per lungo tempo abbiamo etichettato come “terzo mondo”, è sempre stato un tratto fondante della politica estera della Repubblica Popolare Cinese, fin da Mao. Se però per lungo tempo la Cina ha attuato una politica di basso profilo e non-interferenza in Medio Oriente e in Asia centrale, oggi, in particolare dall’avvento di Xi Jinping, la situazione è cambiata.

Secondo Tang Zhichao, analista dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, “la politica cinese in Medio Oriente è ovviamente diversa da quella occidentale. C’è urgente bisogno di rimediare alla mancanza di mediazione da parte della comunità internazionale”. Per Wang Yi la Cina deve usare le sue risorse e la sua influenza per attuare un “cessate il fuoco globale, duraturo e sostenibile” attraverso una “conferenza internazionale di pace” volta alla soluzione dei due-stati. Una conferenza e un piano per la Sicurezza Globale più volte messo al centro del dibattito internazionale anche da Xi.

Oggi la Cina cerca di ritagliarsi ancora il proprio ruolo di mediatore globale con una eredità bellica differente dalle altre grandi potenze. Se infatti gli Usa, l’Europa e la Russia sono stati coinvolti in numerosi conflitti negli ultimi decenni, la Cina (a parte delle accese dispute di confine) non muove guerra dal conflitto in Vietnam, neanche per procura. Questo elemento è parte fondamentale della propaganda interna cinese, come un’apparente imposizione morale capace di ergersi al di sopra delle umiliazioni e dei soprusi degli imperialismi occidentali. La stessa chiave di lettura usata in passato, torna oggi sotto una nuova luce.

Netanyahu negli Usa, Abbas in Cina

Pechino impone dunque una visione globale alternativa e si propone sempre più come attore di pace bilanciando il peso geopolitico degli Usa. I giorni dell’incontro con le delegazioni palestinesi in Cina sono infatti gli stessi giorni in cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è recato negli Usa per una visita con gli alti ufficiali statunitensi. In Israele la reazione all’accordo non si è fatta attendere. Il Ministro degli esteri Katz ha accusato Abbas (Presidente dell’Olp e dell’Anp) di abbracciare “assassini e stupratori” sottolineando come queste iniziative non porteranno a nulla di fatto.

È sempre più polarizzato, dunque, lo specchio tra la propaganda americana e quella cinese. L’Onu non interviene in Ucraina per l’opposizione russa e cinese, e non interviene a Gaza per il veto americano. Con l’Onu da parte siamo di fronte a un clima multipolare che tutte queste potenze dicono di voler evitare anche se portano avanti azioni che, nei fatti, lo stanno accrescendo. Parliamo di una situazione che non fa ben sperare perché al netto degli accordi di pace, il multipolarismo è il clima più instabile mai conosciuto dalla storia politica, lo stesso alla base del fallimento della Lega delle Nazioni (prima versione dell’Onu) e dei due conflitti mondiali.

Storicamente, la Cina ha sostenuto una soluzione a due Stati per Israele e Palestina e, tra i recenti attacchi israeliani a Gaza (ma anche per l’Ucraina), ha costantemente chiesto una conferenza di pace internazionale. Se Hamas e Fatah, nei loro sforzi per riconquistare significato politico e negoziare un cessate il fuoco, facessero passi avanti verso la riconciliazione, sarebbe un significativo successo diplomatico per Pechino. Dimostrare la volontà di mediare in un periodo in cui l’Occidente non mostra le stesse volontà o capacità, costituisce già un forte segnale delle ambizioni globali della Cina.

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Classe 1989, Sinologo e giornalista freelance, è direttore tecnico e amministrativo di China Files, canale di informazione sull'Asia che copre circa 30 aree e paesi. Collabora con diverse testate nazionali e ha lavorato per lo sviluppo digitale e internazionale di diverse aziende tra Italia e Cina. Laureato in Lingue e Culture Orientali a La Sapienza, ha proseguito gli studi a Pechino tra la BFSU, la UIBE e la Tsinghua University (Master of Law – LLM).  Atzori è anche Presidente e cofondatore dell'APS ProPositivo, organizzazione dedita allo sviluppo locale in Sardegna e promotrice del Festival della Resilienza.  
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