
Dopo il piano di Trump, in parte ritrattato, che dovrebbe trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”, la levata di scudi dei leader dei principali paesi vicini non ha tardato ad arrivare. In particolare, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che deve far fronte a un’opinione pubblica contraria nel suo paese a qualsiasi spostamento dei palestinesi nel Sinai, aveva immediatamente manifestato la sua contrarietà e cancellato la visita a Washington, nella quale avrebbe dovuto incontrare Trump, prevista per fine febbraio.
Più disponibile ad ascoltare le richieste di Washington con un trasferimento mirato e limitato a poche centinaia di feriti e malati era invece apparso il monarca giordano Abdullah II che ha incontrato, in vistoso imbarazzo, il presidente Usa lo scorso febbraio. Trump aveva sostenuto che gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo della Striscia per realizzare la ricostruzione di Gaza con capitali arabi spingendo alla deportazione dei palestinesi residenti. Il progetto è stato accolto come una possibile fonte di grave instabilità politica da parte di tutti i paesi vicini, in particolare dal Cairo.
Il piano alternativo egiziano
Abdullah II aveva fatto sapere a Trump che avrebbe pienamente appoggiato la proposta negoziale egiziana. E così è stato dopo l’incontro della Lega araba dello scorso 4 marzo al Cairo in cui i principali leader dei paesi arabi hanno approvato un piano da 53 miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza.
I lavori che già stanno partendo con l’iniziale smaltimento di 50milioni di tonnellate di macerie, secondo questa bozza di accordo, dovrebbe avvenire completamente sotto la supervisione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e avrebbe proprio l’obiettivo di superare i progetti immobiliari di Trump, rappresentati nel video virale realizzato con l’Intelligenza artificiale e condiviso dallo stesso presidente Usa, che implicherebbero la deportazione e la pulizia etnica dei palestinesi senza diritto al ritorno nella loro terra.

Eppure una Striscia di Gaza controllata dall’Anp in futuro non è un progetto privo di incognite. Lo scopo immediato del piano è quello di liberarsi di Hamas, il movimento che è stato in prima linea negli attacchi del 7 ottobre 2023 che hanno causato 1200 morti israeliani e oltre 200 ostaggi, alcuni ancora nelle mani del gruppo, con il conseguente genocidio di quasi 50mila palestinesi. Tuttavia, non è scontato che l’indebolita Anp, a guida Mahmoud Abbas, che ha partecipato al summit del Cairo, sarà in grado di occuparsi del difficile compito.
Le stesse autorità israeliane, che ancora non hanno completato il ritiro delle loro forze militari che tengono Gaza sotto assedio, mentre la seconda fase del cessate il fuoco è lontana dalla sua definizione, sono scettiche sulle possibilità che l’Anp controlli la Striscia. Non solo, proprio Trump nel suo primo mandato, oltre a spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, aveva chiuso gli uffici dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), guidata dal compianto Yasser Arafat tra il 1969 e il 2004, a Washington.
Le reazioni israeliane e di Hamas al piano arabo
Tel Aviv ha subito fatto sapere di essere in completo disaccordo con il piano egiziano perché non critica Hamas e non denuncia le uccisioni e la presa degli ostaggi, di cui il gruppo si è reso responsabile. Le autorità israeliane hanno criticato in particolare le parate militari ostentate che hanno accompagnato il rilascio degli ostaggi israeliani nella prima fase della tregua. D’altro canto, i quasi 1900 detenuti politici palestinesi, rilasciati da Tel Aviv, hanno denunciato maltrattamenti e pessime condizioni di detenzione nelle carceri israeliane.
Piani precedenti per la ricostruzione dei territori occupati, dopo gli attacchi israeliani, hanno sempre trovato l’opposizione di Tel Aviv che ha imposto il lungo assedio della Striscia, nonostante il ritiro unilaterale dell’esercito israeliano (Idf) da Gaza del 2005. Non solo, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu ha sostenuto di volere il pieno controllo dei territori palestinesi, come confermato anche dall’occupazione da parte di Idf dei campi profughi di Tulkarem, Jenin e Nablus in Cisgiordania, avviata nei giorni scorsi per la prima volta da venti anni.
Lo stesso Trump, dopo aver cancellato le sanzioni contro i coloni volute dal suo predecessore, Joe Biden, ha paventato la possibilità che in futuro potrebbe accettare l’annessione delle colonie israeliane in Cisgiordania, sollevando la dura opposizione palestinese.
Dal canto suo, il movimento che governa Gaza ha assicurato che lavorerà per il successo del piano egiziano parlando di un “passo avanti” per il sostegno arabo alla causa palestinese. Hamas continua ad avere ampio seguito nella popolazione della Striscia. Secondo il Palestinian Center for policy and survey research, il 35% degli abitanti di Gaza continua ad appoggiare Hamas, nonostante i 15 mesi di guerra e i due di fragile cessate il fuoco.

E così per il politico di Hamas, Sami Abu Zuhri, pur non escludendo che il gruppo possa fare un passo indietro nel governo della Striscia dove è ininterrottamente al potere dal 2006, il movimento non accetterà mai un progetto di ricostruzione che venga imposto ai palestinesi dall’esterno. “Crediamo che sia necessaria una presa di posizione che rifiuti categoricamente la deportazione dei palestinesi e chiediamo che venga rispettato il diritto del nostro popolo a resistere all’occupazione e all’autogoverno”, ha aggiunto. Hamas ha poi chiesto ai leader arabi di impegnarsi per chiudere “la tragedia umanitaria creata dall’occupazione di Gaza e di impedire che si realizzi il piano di deportazione dei palestinesi”.
I punti salienti del piano arabo
La nuova proposta, discussa al Cairo, si è concentrata sull’emergenza, la ricostruzione delle infrastrutture, distrutte dalla guerra, e uno sviluppo economico di lungo termine. Al-Sisi ha in particolare aperto il suo intervento al summit della Lega araba sottolineando che il piano egiziano per la ricostruzione terrà come punto fermo la certezza che i palestinesi potranno “rimanere nella loro terra”.
Anche il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres si è detto pronto ad assicurare la “piena cooperazione” dell’Onu per la realizzazione di questa iniziativa. Guterres ha chiesto anche che si ritorni “senza ritardi” ai negoziati per la seconda fase della tregua che prevede il rilascio degli ultimi ostaggi israeliani e il ritiro di Idf da Gaza. Nei giorni scorsi Israele aveva sospeso l’ingresso degli aiuti a Gaza nonostante la gravissima crisi umanitaria che colpisce da mesi la Striscia.
Nel comunicato finale del summit del Cairo si legge anche che la Lega araba ha adottato un “piano completo” auspicando il sostegno della comunità internazionale, senza fare riferimento al dispiegamento di forze militari dei paesi confinanti o sul modello di Unifil in Libano. Nel testo si legge poi che “in parallelo dovrà essere lanciato un percorso politico” verso la formazione di uno stato palestinese. A questo processo, prerequisito per avviare nuovi negoziati con Israele anche da parte dell’Arabia Saudita, si sono opposte le autorità israeliane mentre non hanno mostrato alcun interesse ad impegnarsi in questo senso gli Stati Uniti.
Secondo il testo finale presentato al Cairo, dovrebbe essere l’Olp, partito dominate all’interno dell’Anp, a rappresentare i palestinesi con la conseguente esclusione di Hamas. Nel documento di 112 pagine il governo egiziano ha presentato anche immagini ricostruite con l’Intelligenza artificiale di palazzi e centri di comunità, con progetti che includono centri commerciali, resort sulla spiaggia di Gaza e un aeroporto.
Le lacune dell’iniziativa
Non mancano le lacune nell’iniziativa egiziana. Non è chiaro per esempio, secondo il piano arabo, chi dovrà gestire la Striscia nella fase di ricostruzione. In maniera generica, si parla di un comitato amministrativo palestinese.
Non solo, in questa bozza, le autorità egiziane non hanno affrontato in maniera sistematica la questione del disarmo del braccio armato di tutte le forze politiche e militari attive a Gaza. Si sono limitate a sottolineare che un “processo politico credibile” aiuterà ad affrontare tutti i nodi irrisolti del conflitto.
La diplomazia del Cairo nella fase negoziale si è mostrata appiattita su posizioni favorevoli a Israele. Hamas è ancora vista come una minaccia da parte delle autorità egiziane che temono sia i legami del gruppo con i Fratelli musulmani, messi al bando in Egitto dopo il 2013, sia che la presenza di affiliati del movimento nel Sinai possa far partire attentati terroristici contro Israele dal territorio egiziano innescando una guerra regionale. E così le autorità del Qatar hanno assunto a loro volta un ruolo centrale per permettere la realizzazione della prima fase del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, avviatasi lo scorso 19 gennaio.
Come se non bastasse, il regime militare di al-Sisi ha a lungo mantenuto chiuso il valico di Rafah impedendo agli aiuti umanitari di entrare nella Striscia e ai feriti palestinesi di essere curati negli ospedali egiziani.
Il piano di Trump per fare affari nella ricostruzione di Gaza sulle spalle dei palestinesi ha messo a rischio la tregua che a fatica ha visto chiudere la sua prima fase con il rilascio di 33 ostaggi israeliani nelle mani di Hamas lo scorso primo marzo. I paesi arabi sono dovuti in fretta e furia correre ai ripari per evitare che la deportazione di centinaia di migliaia di palestinesi, promessa da Trump, destabilizzasse la tenuta dei loro stessi regimi autoritari. E così il piano proposto dal Cairo al summit della Lega araba scongiura la deportazione dei palestinesi ma non chiarisce a pieno chi e come guiderà il futuro politico della Striscia.
