Cosa succede ora ad Assange, Amnesty: “È libero, ma resta la minaccia verso chi vorrà fare come lui”
"Il team legale di Julian Assange ha fatto la scelta migliore per il suo cliente, date le condizioni di salute fisiche e mentali pessime. Difficilmente avrebbe sopportato l'ennesimo sali e scendi lungo i vari organi della giustizia britannica che erano in programma. Quindi, Assange torna libero, anche se questo patteggiamento dovrà essere ratificato da un giudice federale. Cosa che avverrà probabilmente nelle isole Marianne, un territorio statunitense abbastanza vicino all'Australia, e speriamo che sia l'atto finale di questa storia di suprema ingiustizia".
Così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha commentato a Fanpage.it la notizia del patteggiamento e della liberazione di Julian Assange, il giornalista cofondatore e caporedattore di WikiLeaks, perseguito dalle autorità statunitensi per aver pubblicato documenti riservati forniti dall'ex analista dell'intelligence dell'esercito Chelsea Manning nel 2010 e nel 2011.
Julian Assange ha accettato di dichiararsi colpevole ammettendo di aver commesso un reato legato alla rivelazione di documenti riservati. Secondo i termini del nuovo accordo, i pubblici ministeri del Dipartimento di Giustizia chiederanno una condanna a 62 mesi, che equivale agli oltre cinque anni che Assange ha già scontato in un carcere di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra.
Cosa accadrà adesso?
L'accordo tra il Dipartimento di Giustizia e il team legale di Assange è stato raggiunto, la pena massima prevista è di 62 mesi che coincidono con il periodo che Assange ha già scontato a Belmarsh nel Regno Unito. Ora occorre la ratifica del giudice federale, ci sarà questa strana udienza in un luogo sperduto dell'Oceano Pacifico, ma va bene così.
Cosa ha rappresentato e continua a rappresentare il caso Assange?
Quella di Assange è stata una storia di persecuzione giudiziaria senza precedenti nei confronti della libertà di informazione, che ha visto una coalizione di Paesi, guidata dagli Stati Uniti, accanirsi contro una persona sola che non aveva fatto altro che fare giornalismo investigativo al suo meglio, ricevendo da una fonte fidata informazioni, ritenendole d'interesse pubblico, giacché parlavano di vari aspetti, crimini di guerra e corruzione governativa, e rendendoli pubblici.
La libertà d'informazione non è mai stata in pericolo come durante questa persecuzione. Però resta il messaggio minaccioso nei confronti di chi vorrà fare ciò che ha fatto Assange, quindi rendere pubbliche le malefatte, fare rumore contro il silenzio dei governi. E il messaggio è: ‘Occhio a quello che fate', questo messaggio rimane.
Qual è stato il ruolo degli attivisti e di chi si è schierato al suo fianco?
Il lavoro degli attivisti è servito a salvargli la vita perché, mentre a poco a poco tutti i colleghi di Assange che avevano usato le sue informazioni lo abbandonavano al suo destino, la società civile si mobilitava, riempiendo le piazze in occasione di ogni udienza, da Londra fino a Roma. Quindi, è decisamente servito.
E questo ci insegna che possono occorrere anni, ma se i gruppi per i diritti umani non abbandonano le persone al loro destino, come spesso invece fanno i governi o i mezzi d'informazione, a volte un risultato importante si ottiene.
Questo sarà quindi un precedente da valutare positivamente o negativamente?
La vedo da due punti di vista. Assange ora ha un futuro, è libero, può stare con la sua famiglia e questo è un fatto di enorme importanza. Dall'altra parte, però, per ottenere tutto questo ha dovuto dichiararsi colpevole.
Quindi, resta questa macchia, quella di aver preteso di processare e condannare a 175 anni di carcere una persona che aveva solo fatto il suo dovere. Per questo dico che il messaggio minaccioso rimane.
Perché il lavoro dei giornalisti rimane così importante, anche se oggi è una professione attaccata da molti fronti?
Più il livello di democrazia e di rispetto dei diritti umani cala e più il giornalismo investigativo diventa un nemico degli Stati perché sfida la regola del ‘non bisogna far sapere', dei crimini di guerra, della corruzione, della collusione tra potere e criminalità organizzata. E quindi sempre di più il giornalismo che indaga e sfida il silenzio è visto come un nemico.
Non è un caso che gli attacchi alla libertà di stampa sono in aumento nel mondo, ci sono tante piccole storie come quelle di Assange che non conosciamo che hanno già avuto luogo. E voglio anche aggiungere che non siamo immuni neanche noi, anche in Italia il giornalismo d'indagine è sotto attacco.
Le reazioni al servizio di Fanpage.it ne sono un chiaro esempio, così come l'indagine nei confronti dei tre giornalisti del quotidiano Domani. Oggi il giornalismo d'inchiesta ci racconta quello che non si vuole far sapere e automaticamente diventa un bersaglio. Il potere ha sempre qualcosa da nascondere e il giornalismo, quello serio, sempre qualcosa da rivelare. Il conflitto è lì.