Tornano a crescere le tensioni intorno a Taiwan con nuove esercitazioni militari cinesi, le più grandi nell’ultimo anno. Numerosi analisti le ricollegano direttamente all’esito delle ultime elezioni presidenziali che hanno visto l’elezione – lo scorso gennaio- del Presidente Lai Ching-te, da lungo tempo inviso a Pechino per le sue “posizioni indipendentiste” che lo hanno portato ad essere definito dal governo della Rpc come “piantagrane” e “guerrafondaio”.
Durante la campagna elettorale, infatti, la propaganda di Pechino si è mossa per screditare Lai, descrivendo le elezioni come una scelta tra “guerra e pace”, rifiutando il dialogo o invitando a sostenere altre forze politiche. Dal canto suo, Lai non si è risparmiato nel suo discorso inaugurale, ponendosi in continuità con Tsai ma affermando che “l'era gloriosa della democrazia di Taiwan è arrivata”, e reiterando in diversi passaggi la volontà di difendere la sovranità taiwanese.
Le differenze col passato
Il colonnello della marina cinese Li Xi ha definito le esercitazioni come “una dura punizione per gli atti separatisti delle forze indipendentiste di Taiwan e un serio avvertimento contro le interferenze e le provocazioni da parte di forze esterne”, ovvero gli Usa, la Nato e i suoi alleati. Le esercitazioni sono iniziate la mattina del 23 maggio con la mobilitazione di esercito, marina, aeronautica e missilistica. Secondo i dati del Ministero della difesa taiwanese, nelle prime 24 ore si sono mossi 49 aerei, 19 navi e 7 vascelli della Guardia costiera.
Tuttavia, per quanto questi numeri possano allarmare, al fine di comprendere se la situazione stia cambiando è necessario verificare cosa ci sia di diverso dal passato.
Come riporta la Bbc, le esercitazioni hanno simulato “un attacco su vasta scala, piuttosto che un blocco economico, come è avvenuto durante il precedente ciclo di importanti esercitazioni militari nel 2022: questa è la prima volta che la Cina lo fa”. Se nel 2022 -in seguito alla visita di Nancy Pelosi- le esercitazioni durarono 10 giorni, lo scorso anno furono 3 giorni e adesso solo 48 ore, mostrando una maggiore capacità di intervento e reazione da parte cinese nell’istituire un blocco. Tuttavia, come riportato da Lorenzo Lamperti di China Files, questa volta non sono state impiegate portaerei né missili balistici, con un impatto psicologico differente sulla popolazione.
Diversi report hanno previsto invece che le manovre avrebbero presto coinvolto anche la Guardia costiera, cosa che è avvenuta per la prima volta. La Guardia costiera cinese (Gcc) è la più grande flotta al mondo e il suo intervento estende le opzioni della Rpc nello Stretto, coinvolgendo le imbarcazioni civili e le isole minori intorno a Formosa come Kinmen, Matsu, Wuqiu e Dongyin. Non solo, secondo gli ultimi dati forniti dal governo di Tokyo, le navi della Gcc sono state intorno alle isole controllate dal Giappone nel Mar cinese orientale per 158 giorni consecutivi, infrangendo il record stabilito nel 2021.
Il blocco di Pechino: conseguenza o pretesto?
Nelle mappe sviluppate da Henrik Pettersson per la Cnn è possibile notare come le esercitazioni su Taiwan si siano concentrate in diverse aree, accerchiando l’isola in 5 punti strategici: a ovest per il controllo dello Stretto; a nord a largo della Capitale, a sud nella porta verso il Mar cinese meridionale in prossimità del porto di Kaohsiung (il più grande, fondamentale da un punto di vista economico e militare); a est verso il Pacifico, luogo di approvvigionamento energetico e di principale intervento degli alleati. Vista la dipendenza economica ed energetica di Taipei da Pechino e dall’estero, un blocco navale di questo tipo potrebbe mettere in grave crisi l’isola in pochi giorni. Non solo, colpirebbe in maniera forte anche le economie circostanti, dato che in quell’area trafficano una buona parte delle merci giapponesi e coreane.
Tuttavia, all’interno di uno scenario geopolitico sempre più multipolare, complesso e segnato da conflitti internazionali, non è facile tenere traccia del quadro complessivo. Da una parte c’è chi fomenta l’allarmismo ogni qual volta ci siano tensioni, preparando l’opinione pubblica ad un’imminente invasione. Dall’altra c’è chi si concentra sull’analisi a medio-breve termine, maggiormente attenta ma comunque legata agli avvenimenti più recenti.
Non che sia errato ricollegare le esercitazioni ad avvenimenti politici come la visita di Nancy Pelosi, o all’elezione del nuovo presidente inviso a Pechino, ma spesso si perde di vista il quadro complessivo, considerando queste come cause di un evento che genera conseguenze piuttosto che degli step strumentali che la propaganda di Pechino sfrutta per proseguire nel suo percorso. C’è una parte minoritaria di analisti che infatti riscuote meno pubblico ma si concentra su elementi vitali per comprendere da vicino la geopolitica cinese, focalizzandosi sul lungo termine. Un lungo termine che nella politica dell’estremo oriente è spesso molto più dilatato della concezione Occidentale.
Hong Kong a Deng, Taiwan a Xi
Lo si nota anche dai piani trentennali che riesce a implementare la Rpc, a differenza delle democrazie europee che hanno una visione molto più limitata, sia per motivi culturali che di strutturazione politica. Basti pensare a come è stata riconquistata Hong Kong dagli inglesi dopo oltre 150 anni, con altri 50 anni di pazienza, diplomazia e accesi scontri, ma senza guerre o invasioni militari.
Su questo tipo di mentalità cinese esiste una grande letteratura che ha finito anche per stereotipare alcune visioni, come quando Kissinger paragonò occidente e oriente al gioco degli scacchi e del weiqi. Di sicuro però, chiunque approfondisca la politica cinese si rende conto di come realmente -a volte- sembra che stiamo giocando a giochi da tavolo diversi con regole diverse in cui non può esserci una vera sfida o un vero vincitore. Ne scrissi per la Tsinghua University in un paper in cui ho evidenziato la differenza tra “smart power” e “subtle power”, ma in questo caso forse basterebbe citare l’arte della guerra di Sun Tzu, per cui il miglior modo di vincere una guerra è non combatterla, per cui chi è veramente il più forte convince il nemico che non valga la pena combattere.
È vero, per Xi Jinping la riunificazione di Taiwan è divenuta un elemento centrale della sua Presidenza, metro delle sue capacità sia in patria e sia all’estero o della sua ambizione a ergersi al livello di Mao e Deng, ma sono ancora numerose le strade percorribili. Infatti, nonostante la macchina di propaganda Usa parli di un pericolo imminente per Taiwan convincendo una buona parte della sua opinione pubblica e delle imprese, numerosi analisti e generali americani sono convinti del fatto che la Cina non voglia riprendere Taiwan con la forza e che il pericolo non sia imminente perché si preferirebbe una riunificazione pacifica. Dello stesso avviso sono le autorità cinesi che, in più occasioni, privatamente e pubblicamente, hanno mostrato come l’azione militare sia l’ultima opzione attuabile qualora la linea rossa sia stata valicata e la riunificazione pacifica sia, di fatto, divenuta impossibile. Anche perché secondo recenti dati di Bloomberg, una guerra simile costerebbe 10mila miliardi di dollari, ovvero il 10% dell’economia globale.
Una guerra più intelligente e subdola
Le azioni messe in campo da Pechino sono molteplici e vanno dal soft power delle relazioni diplomatiche e degli accordi politico-commerciali che mirano ad aumentare l’influenza della Cina continentale e la dipendenza di Taiwan, all’hard power, come nel caso delle esercitazioni e delle intimidazioni. Non solo soft e hard, c’è una terza via che li unisce. Un nuovo report di Booz Allen -provider di AI e 5G per il governo Usa- valuta il ruolo della rivoluzione digitale, dell’IA e delle attività cibernetiche nei tentativi di Pechino di isolare, indebolire e riassorbire Taiwan. “Una guerra convenzionale per Taiwan non è né inevitabile né imminente” si legge nel report. “Tuttavia, le strategie informatiche della Repubblica Popolare rappresentano un rischio inaccettabile per la stabilità globale”.
I nuovi dati mostrano come queste attività implementate negli ultimi anni sul piano economico, militare, politico e mediatico, stiano gradualmente portando il bilanciamento di potere in favore di Xi Jinping. “La Rpc utilizza lo spionaggio informatico e gli investimenti tecnologici nazionali per indebolire i principali vantaggi di Taiwan nel campo dei semiconduttori, con attacchi informatici dirompenti per intimidire la leadership e i partner, operazioni di informazione per seminare divisioni e progetti di infrastrutture digitali globali per ottenere influenza”.
Destabilizzazione cognitiva
La Cina mira a sviluppare un controllo sul lungo periodo del dominio cognitivo in cui risiedono le informazioni, dando priorità al progresso graduale piuttosto che alla conquista immediata, “elaborando narrazioni che dipingono il governo come corrotto, incompetente o entrambi, la Rpc cerca di destabilizzare l’ambiente politico di Taiwan. Questo approccio non solo semina discordie interne, ma minaccia anche di indebolire la posizione globale di Taipei. Il successo di questa tattica dipende dalla capacità della Cina di sfruttare e peggiorare le preoccupazioni dei cittadini”.
Pechino si sta attrezzando sotto diversi fronti, sia nel comprendere le nuove tecnologie e sia nel risolvere le proprie vulnerabilità. Entro il 2049 l’esercito cinese mira a divenire un peso massimo globale per capacità militari e nel raggiungere questo obiettivo, già dal 2016, la Commissione Militare Centrale ha identificato come prioritario l’utilizzo di tecnologie informatiche, machine learning, intelligenza artificiale, big data, cloud computing e nuovi sistemi digitali di combattimento. Allo stesso modo, dal 2021, allo scopo di ridurre i propri punti deboli sul piano informatico e industriale, Pechino ha adottato una legge sulla divulgazione a “zero-giorni”, in cui obbliga i produttori di hardware e software a segnalare le vulnerabilità al governo entro due giorni dalla scoperta, senza divulgazione pubblica o condivisione con entità straniere.
Un esercito di malware e di troll
Da mesi le autorità americane lamentano la crescita degli attacchi informatici cinesi verso le infrastrutture governative e commerciali, come anche mostrato dal gruppo di hacker Volt Typhoon. Secondo i direttori di FBI, NSA, e la Cybersecurity and Infrastructure Security Agency il gruppo sta installando malware in tutta la rete. Software che una volta innescati potrebbero colpire la rete idrica, energetica, i servizi e i trasporti, seminando il caos e comportando un grande rischio socio-politico e commerciale. Tema, quest’ultimo, al centro anche dei confronti sullo spionaggio e cyber-spionaggio avvenuti con Xi durante la sua ultima recente visita in Ue (di cui abbiamo parlato negli scorsi giorni qui su Fanpage.it).
Oltre all’azione digitale sotterranea c’è anche quella alla luce del sole, ovvero quella che ci troviamo sui media e sui social, dove propaganda e contenuti pubbli-redazionali spesso si mischiano senza una linea di confine. La CCTV, emittente di stato, ha presentato le esercitazioni come manovre in grado di attaccare importanti obiettivi militari nemici. Un successo vantato dal governo anche sui social attraverso meccanismi simili a quelli implementati dalle Fabbriche di Troll russe in patria e all’estero (determinanti nel Donbass o in Crimea), capaci di produrre e diffondere una quantità di fake news in grado di superare il flusso di notizie verificate anche nelle società Occidentali. Azioni che hanno portato persino l’opinione pubblica italiana a vivere periodi in cui si aveva più fiducia nella Russia e nella Cina rispetto ai partner europei o americani.
Come rileva il rapporto, “l'impegno della Rpc in forme palesi di potere nazionale, come atteggiamenti militari, iniziative economiche e pressioni diplomatiche, spesso coincide con operazioni informatiche furtive”. Tutti questi tentativi sono interconnessi e volti a massimizzare la percezione della Cina come forte e, al tempo stesso, a instillare il dubbio nelle menti della leadership e dell’opinione pubblica taiwanesi e Occidentali.