Cosa rappresenta la vittoria di Donald Trump per Cina, Taiwan e Ue (e cosa c’entra Elon Musk)
Il 5 novembre scorso, Donald Trump è stato eletto Presidente degli Stati Uniti d’America per la seconda volta e, immediatamente, i media e gli analisti di tutto il mondo hanno iniziato a fare previsioni sul suo operato, in particolare nei confronti dei principali partner commerciali, Cina e Unione Europea in primis.
Sulla scia del suo scorso mandato, quello che verrebbe subito da pensare è che ci sarà una nuova e ancora più drammatica guerra commerciale con la Cina, con un’ostilità nei confronti del multilateralismo europeo che mira a consolidare la sua figura di uomo forte al comando, il quale non ha tempo, o volontà, per la diplomazia perché concentrato sull’economia interna.
Se vuoi la pace, prepara la guerra
I suoi consiglieri, infatti, non hanno esitato a ribadire quest’ultimo aspetto, dichiarando che quello di cui gli Usa hanno bisogno ora è di un approccio di “pace attraverso la forza”, non molto diverso dal detto latino “si vis pacem, para bellum”, se vuoi la pace, prepara la guerra.
La verità è che la politica è un tema molto più sensibile e complesso rispetto alla semplice propaganda. Da una parte infatti, al netto del Presidente eletto, la Cina rimarrà il principale problema di sicurezza nazionale per gli Usa, dall’altra, non si può ignorare la differenza di approccio e di contesto tra un primo e un secondo mandato a oltre 4 anni di distanza.
Una Cina meno vicina
Per capirlo, partiamo prima di tutto dalla visione cinese rispetto a queste ultime elezioni americane. L’opinione pubblica mandarina non ha seguito queste elezioni con lo stesso interesse delle precedenti. Da una parte perché, come citato in precedenza, che avesse vinto Trump o Harris non avrebbe fatto troppa differenza per un sistema geopolitico che vede Usa e Cina come nemici o competitor naturali. Di conseguenza, non si vede una grande differenza tra i due schieramenti. Dall’altra perché altri temi caldi come l’Ucraina e il Medio Oriente hanno catalizzato l’attenzione mediatica. Allo stesso modo, la terza corsa di Trump non ha offerto molti elementi di novità per il dibattito, soprattutto per un popolo la cui cultura è molto conservatrice rispetto al liberalismo democratico.
Infatti, enfatizzare la democrazia, la libertà, i diritti umani e civili o il multiculturalismo, non è un vero e proprio valore diffuso nella società cinese contemporanea, a partire dalle battaglie per il mondo Lgbtqi+. Allo stesso modo, molti cinesi non si trovano in opposizione alle battaglie di Trump contro l’immigrazione clandestina e contro le tassazioni, così come sono contrari ad un forte intervento dello Stato nell’economia privata nonostante il sistema di governo che adoperano. Un intervento statale già molto presente in Cina ma che è stato esasperato notevolmente durante la pandemia.
Secondo il The Diplomat, i cinesi che supportavano Harris non lo facevano per le sue politiche economiche e sociali, ma per l’azione in Ucraina, perché considerano corretta la difesa della sovranità davanti all’invasione russa. Ed è questo anche uno dei motivi per cui la posizione cinese sul conflitto ucraino ricerchi sempre un punto di equilibrio che le permetta di supportare il partner russo senza perdere il favore di quello europeo.
Le differenze con il passato
Conoscendo la vastità dell'opinione pubblica e la complessità della politica cinese, non è dunque così scontato capire come Pechino abbia preso la notizia della rielezione di Trump. Infatti, se per l’elezione di Biden nel 2020 la Cina ci mise quasi una settimana a pronunciarsi pubblicamente, ora il messaggio del ministro degli esteri cinese è stato quasi istantaneo.
Quello che si nota dai social media, dalla stampa e dagli analisti cinesi è che l’opinione pubblica mandarina è più interessata ai grandi movimenti elettorali che mostrano come la società Usa stia cambiando, piuttosto che al risultato della singola elezione. Un esempio è infatti la vittoria in Florida di Hillary Clinton nel 2016 con 30 punti di distacco su The Donald, mentre ora i repubblicani hanno trionfato in questo Stato con 11 punti di distacco sui democratici.
“La differenza principale tra Harris e Trump è che Trump offre almeno l'opportunità di una sorta di grande patto strategico,” dichiara su The Independent Derek Grossman, analista della difesa presso il think tank RAND, “mentre Harris non offrirebbe affatto questa opportunità e avrebbe continuato l'approccio dell'amministrazione Biden nell'Indo-Pacifico, che consiste nel rafforzare alleanze e partnership per contrastare la Cina in questo momento".
Due opzioni ma molti “guanxi”
Secondo gli analisti cinesi interessati a questi movimenti, si intravedono due possibili opzioni principali per il secondo mandato di Trump. La prima ipotesi è che Trump faccia quanto fatto nel primo mandato ma in maniera ancora più esasperata, forte della maggioranza congressuale e del suo ultimo giro da Presidente. Questo creerebbe un rischio non solo per la Cina ma anche per gli Usa e per il mondo, facendoci ripiombare così in guerre diplomatiche, economiche e tecnologiche su scala sempre più vasta.
La seconda ipotesi è che trattandosi del suo ultimo mandato, esso voglia lasciare una buona eredità politica ed economica per la sua reputazione su un piano storico, opzione supportata anche dal forte narcisismo di cui si è reso celebre. Perciò secondo alcuni potrebbe essere più cauto rispetto al primo mandato nel tentativo di migliorare la sua immagine e lasciare un segno memorabile.
C’è anche chi non sottovaluta le relazioni personali del Presidente Trump, o per stare in tema Cina, i suoi guanxi. In più occasioni Trump ha mostrato ammirazione e stima nei confronti di Xi, cosa che non si può dire di Biden che lo definì apertamente come un “dittatore”. Trump usa parole diverse, “rispetto molto il presidente Xi. L'ho conosciuto molto bene. E mi è piaciuto molto. È un tipo forte, ma mi è piaciuto molto.” Insomma, tra leader carismatici e autoritari ci potrebbe essere maggiore comprensione reciproca.
Nulla di scontato, tutto di estemporaneo
Per questi motivi, la rielezione di Trump non necessariamente sarà un problema più grande per la Cina. Per quanto riguarda Pechino infatti, la questione maggiore consiste non tanto nella sua figura e nei suoi ideali, ma nell’imprevedibilità e l’estemporaneità del suo agire, rispetto ad un operato cinese celebre per lunghe programmazioni decennali o trentennali.
Se, infatti, i piani e gli obiettivi di Pechino da qui al 2050 sono stati chiariti in innumerevoli occasioni, quelli della nuova presidenza americana potrebbero cambiare in maniera umorale, e questo fornisce un vantaggio strategico più corposo per Washington che per la controparte. Allo stesso modo però, l’imprevedibilità di Trump potrebbe portare gli alleati a fidarsi meno degli Usa, come accaduto nel primo mandato, cercando maggiore autonomia e offrendo più sponde a Pechino.
Taiwan e il “nemico pubblico dell’umanità”
I primi segnali di questo arrivano nei confronti delle politiche proposte per Taiwan, come si evince dalle sue stesse parole: “Taiwan dovrebbe pagarci per la difesa. Sai, non siamo diversi da una compagnia assicurativa. … Taiwan non ci dà niente.” Lo scorso luglio Trump ha di fatto dichiarato a Bloomberg che la difesa di Taiwan da parte degli Usa non può essere gratuita e che Taipei dovrebbe investire maggiormente in difesa e in supporto americano. Un’uscita che ha imbarazzato non poco la Repubblica di Cina, sbeffeggiata sui social mandarini per la mancanza di sovranità e per l’essere vessata a piacimento dagli Usa.
Oggi Taiwan investe il 2,6% del proprio PIL in difesa, ma secondo lo scorso consigliere di Trump per la sicurezza nazionale, Robert O’Brien, potrebbe essere richiesto uno sforzo maggiore. Questo nonostante la TMSC, la più grande azienda di semiconduttori al mondo (che ha superato Intel, Nvidia e Samsung, ciò che rende Taiwan maggiormente importante sul piano strategico), abbia investito 65 miliardi di dollari per nuovi depositi e strutture in Arizona. Perciò, secondo gli analisti, Trump andrà a rinegoziare il supporto a Taiwan, ma è molto difficile, se non proprio impossibile, che lo abbandoni, a maggior ragione per cause di tipo economico.
I rapporti degli Usa con la Cina e con Taiwan però dipenderanno anche dalle figure di cui Trump deciderà di circondarsi. Parliamo in particolare del suo ex Segretario di Stato Mike Pompeo, il quale si è mosso in più occasioni per ribadire l’indipendenza di Taiwan venendo sanzionato dai cinesi che lo hanno etichettato come “nemico pubblico dell’umanità”
Tariffa, la “più bella parola del dizionario”
Oltre a Taiwan il principale punto di differenza con Biden potrebbe essere il commercio, che è anche il principale punto sollevato da tutti gli analisti. La gran parte degli esperti occidentali è infatti preoccupata da questo aspetto e prevede un ritorno alla guerra economica, soprattutto in un momento di difficoltà per la crescita cinese.
Non a caso, il sito internet della campagna presidenziale repubblicana parla chiaramente di ridurre la dipendenza americana dai beni cinesi, e in un’intervista qualche settimana prima di essere eletto, The Donald ha dichiarato che “tariffa” è “la più bella parola del dizionario”.
Al netto di Trump però, l’opposizione economica a Pechino è bipartisan, perciò è possibile che nel colpire Pechino, Trump vada a consolidare il suo gradimento in patria. Un consenso che ha portato Biden non solo a non rivedere le barriere economiche implementate nell'amministrazione precedente (che hanno imposto tariffe su alcuni beni fino al 25%), ma anche ad imporre nuovi dazi su beni strategici.
La clausola della nazione più favorita
La differenza, perlomeno a parole, tra la politica economica in Cina di Biden e di Trump, consiste prevalentemente nel fatto che se Biden aveva interesse a limitare Pechino, Trump sembra più interessato a riportare la manifattura negli Usa. Questo lo conduce ad avere un approccio più universale sulle tariffe che non si limita solo a Pechino, ma anche agli alleati.
In più Trump definisce la Cina come un paese che “manipola la valuta” e vorrebbe prendere contromisure a partire dal revocarle lo status di CNPF (Clausola della nazione più favorita), avendo così la possibilità di porre tariffe in maniera unilaterale e promettendo di farle crescere fino al 60%.
Colpire i nemici, colpire gli alleati
Tuttavia, mosse del genere andrebbero a colpire negativamente e in maniera profonda anche le aziende e i contribuenti americani. Non solo, un’azione simile andrebbe a destabilizzare anche gli alleati europei, al netto del fatto che seguano anche loro la linea economica e tariffaria di Washington. Trump ha infatti promesso tariffe del 20% anche ad altri paesi, inclusa l’Europa.
Ciò non creerebbe solo rappresaglie economiche nei confronti degli Usa, indebolendo l’economia e la diplomazia americana, ma darebbe all’Ue la possibilità -come nel primo mandato- di essere maggiormente autonoma dagli americani, di rifondare la propria politica estera, di non portare avanti azioni unitarie nei confronti di Pechino, ma soprattutto di cucire maggiormente con esso, essendo tra i più grandi partner commerciali al mondo, anche in vista della risoluzione del conflitto ucraino.
La variabile Musk
Uno dei primi aspetti di confronto che interroga gli esperti riguarda -per esempio- le ripercussioni sul mondo automobilistico e sulla nuova mobilità elettrica suscitati dall' accoppiata Trump-Musk. Il miliardario americano alla guida di Tesla e SpaceX è oggi l’uomo più ricco al mondo e dopo aver aiutato The Donald con la campagna ha ricevuto la guida del nuovo Ministero per l'efficienza governativa Usa, il Doge.
La vittoria di Trump perciò potrebbe compromettere i produttori di auto europei, secondo quanto dichiarato dallo stesso Presidente di recente: “Voglio che le case automobilistiche tedesche diventino case automobilistiche americane … le tasse più basse, i costi energetici più bassi e il minor onere normativo” per chi sceglierà di spostare la produzione negli Usa, mentre è prevista “una tariffa consistente” per tutte le altre.
Proprio in questi giorni, inoltre, come riportato da Simone Pieranni di Chora Media, il Quotidiano del Popolo (giornale ufficiale del Partito Comunista) ha elogiato Tesla, casa automobilistica molto diffusa in Cina e artefice di importanti investimenti. Nel 2018 Xi Jinping ha infatti rimosso alcune restrizioni sugli investimenti stranieri nell'automotive e Tesla ne ha subito approfittato investendo 50 miliardi di yuan (€6,5 miliardi) nel creare una nuova fabbrica a Shanghai con una produttività annuale di 500 mila esemplari.
Oggi la Cina è il principale leader nello sviluppo della mobilità elettrica e nel 2023 le sue esportazioni sono aumentate del 77%, anche grazie a Tesla. Come riporta il Quotidiano del Popolo in maniera molto diretta e lanciando un messaggio alle potenziali misure anti-cinesi di Trump: “La cooperazione e il reciproco vantaggio sono la strada da seguire, mentre l'isolamento e l'esclusività sono vicoli ciechi. Oggi affidandosi al perfetto sistema di catena di fornitura della Cina e alle capacità di smart production la Tesla fa uscire in media dalla catena di montaggio di Shanghai un veicolo ogni 30 secondi. Nel 2023, la produzione della fabbrica cinese di Tesla ha rappresentato più della metà della sua capacità di produzione globale, di cui il 36% è destinato al mercato delle esportazioni.”
Perciò, secondo Neil Thomas della Asia Society Policy, le relazioni di Musk con la Cina potrebbero limitare le tariffe e le imposizioni economiche di Trump, o meglio, il tema Cina potrebbe essere il loro vero primo punto di confronto e scontro. Il futuro non è perciò scontato né tantomeno già scritto e anche l’Europa giocherà un ruolo fondamentale.