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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Cosa potrebbe accadere se Israele decidesse di invadere il Libano: l’analisi dell’esperto

Benjamin Netanyahu potrebbe ordinare presto un’invasione via terra finalizzata all’occupazione del Libano e allo smantellamento di Hezbollah. Se avvenisse, tuttavia, l’IDF troverebbe ad attenderlo una milizia ben organizzata e ottimamente armata.
Intervista a Giuseppe Dentice
Analista del CeSI, esperto di Medio Oriente.
A cura di Davide Falcioni
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Dopo le detonazioni di cercapersone e walkie-talkie avvenute nei giorni scorsi Israele ha lanciato oggi un nuovo massiccio attacco sul Libano causando almeno otto morti vicino alla capitale Beirut – cinque dei quali sarebbero bambini – e decine di feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni. Da giorni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva annunciato l'imminente inizio di una nuova fase della guerra e lo spostamento del focus delle operazioni militari dalla Striscia di Gaza al confine settentrionale.

Il timore è ora quello che il leader di Tel Aviv possa ordinare presto un'invasione via terra finalizzata all'occupazione del Libano e allo smantellamento di Hezbollah. Se avvenisse, tuttavia, l'IDF troverebbe ad attenderlo una milizia ben organizzata e ottimamente armata. Fanpage.it ha fatto il punto della situazione con Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.SI – Centro Studi Internazionali.

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Intorno alla fine di luglio Israele ha intensificato la campagna di omicidi mirati contro i suoi oppositori, uccidendo quasi contemporaneamente il comandante di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e il leader politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran. Poi, nei giorni scorsi, sono arrivate le esplosioni dei cercapersone e dei walkie-talkie in tutto il Libano. Qual è stato l'impatto di queste ultime azioni?

Come si può desumere anche dal video messaggio di ieri di Hassan Nasrallah il colpo subito è stato molto duro, anche se ad oggi noi non abbiamo idea di quanti attacchi siano andati davvero a buon fine, ovvero di quanti dirigenti di Hezbollah siano stati effettivamente eliminati. Però sappiamo che ci sono stati complessivamente 37 morti e oltre tremila feriti, e che l'azione ha causato un danno psicologico immane. Israele ha mostrato ancora una volta la forza dei suoi apparati di sicurezza, proprio quelli usciti malconci dopo il 7 ottobre 2023. Attraverso questa operazione, quindi, Tel Aviv è riuscita a dimostrare la sua superiorità tecnologica ed operativa. Gli attacchi combinati degli ultimi giorni hanno creato non solo un danno materiale e politico ma soprattutto uno shock psicologico. Parliamo di un'umiliazione che avrà conseguenze di lungo periodo dentro la catena di comando di Hezbollah, tra la popolazione libanese e nel resto del Medio Oriente.

Nel suo discorso di ieri Nasrallah ha puntato il dito contro Israele e ha giurato vendetta, ma non ha annunciato quando e come Hezbollah colpirà. Secondo alcuni osservatori si è trattato di una prova di freddezza, ma anche dell'ammissione delle difficoltà che il "Partito di Dio" sta attraversando.

Il discorso di Nasrallah può essere interpretato in più modi. Se ci soffermiamo sulle sue parole la sensazione è che non ci sarà nessuna risposta immediata: gli attacchi subiti, infatti, sono stati tanti e tali che potrebbero aver indotto lo stesso Hezbollah a temporeggiare. Oggettivamente, le operazioni degli ultimi giorni dimostrano che allo stato attuale probabilmente il "Partito di Dio" non è assolutamente in grado di dare alcun tipo di risposta efficace. La superiorità di Israele appare soverchiante. E questo Nasrallah lo sa bene.

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Anche in assenza di una risposta da parte di Hezbollah Israele potrebbe decidere di forzare la mano ed invadere il sud del libano? 

Da un lato potremmo dire che le ultime operazioni, inclusi i bombardamenti delle ultime ore, sono state propedeutiche a un attacco via terra. Lo prova ad esempio lo spostamento della 98esima divisione da Khan Yunis (Gaza) al nord di Israele, così come lo dimostrano i molteplici strike aerei condotti ieri e oggi contro target sia civili che militari di Hezbollah. Tutti questi elementi lascerebbero propendere per un'imminente inizio di un'operazione terrestre. Allo stesso tempo, però, la decisione di Hezbollah di non rispondere potrebbe essere interpretata come la volontà di non fornire un casus belli a Tel Aviv. Sulla base di questo ragionamento, Benjamin Netanyahu potrebbe anche decidere di non invadere il sud del Libano.

Se Israele dovesse comunque decidere di invadere il Libano cosa troverebbe ad attenderlo?

Il sud del Libano non è la Striscia di Gaza. Hezbollah può contare su circa 40mila combattenti diffusi su tutto il territorio, soprattutto nelle roccaforti nel sud, proprio in quella zona in cui avverrebbe lo scontro massiccio con l'esercito dello stato ebraico. Non solo: Hezbollah è abituato non solo alla guerriglia, come Hamas, ma anche alla guerra vera e propria, visti i trascorsi in Siria a supporto di Assad degli ultimi 15 anni. Insomma, Israele non troverebbe soggetti che potrebbero al massimo creare qualche scompenso, bensì una milizia organizzata e addestrata come un esercito regolare. Tuttavia ribadisco un concetto: gli attacchi degli ultimi giorni stanno inducendo i leader di Hezbollah ad approfondite riflessioni sull'opportunità di contrapporsi direttamente a Israele. Anche perché, fattore tutt'altro che secondario, l'Iran ha lasciato chiaramente intendere di voler restare fuori dalla contesa e di non volere un'escalation del conflitto in Medio Oriente.

A proposito dell'Iran: anche il regime di Teheran negli ultimi mesi ha subito molti attacchi da parte di Israele, eppure la risposta finora è stata molto timida. Come mai?

Le ragioni sono molteplici. L'Iran vive una situazione interna di grande confusione e tensione a causa di quello che è successo negli ultimi cinque anni. Forse abbiamo dimenticato ad esempio le proteste femministe seguite alla morte di Masha Amini, ma anche le contestazioni della popolazione per la situazione socio economica causata anche – ma non solo – dalle dure sanzioni internazionali. Non mancano poi le tensioni nel nord del Paese, soprattutto contro quei curd, che per la prima volta dopo decenni hanno manifestato una certa irrequietezza contro il regime. Insomma, ci sono diversi motivi che spingono Teheran a non lanciarsi in una guerra contro Israele senza aver prima risolto i suoi problemi interni. Inoltre c'è un altro elemento fondamentale: il negoziato sul nucleare, che non è mai finito. Per l'Iran è fondamentale mantenere un dialogo aperto su questo tema. Sia la guida suprema Ali Khamenei che il primo ministro Masoud Pezeshkian preferiscono continuare a trattare con gli USA, possibilmente con un'amministrazione come quella di Biden-Harris. Per finire, l'Iran non ha nessuna intenzione di avventurarsi in una guerra che non percepisce come sua, come ha ampiamente dimostrato negli ultimi mesi, soprattutto da aprile in poi. L'Iran è determinato a restare fuori dal conflitto, anche a costo di veder messo in discussione il suo ruolo di leadership dell'asse della resistenza.

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