Cosa farà l’America se la Cina dovesse invadere Taiwan
La tensione torna a crescere su Taiwan e sulle relazioni Usa-Cina dopo le ultime dichiarazioni di Joe Biden. Ieri, nel rispondere con un semplice "sì" alla domanda di un giornalista, il presidente americano ha riaffermato come il suo Paese sarebbe intervenuto militarmente in caso di un’invasione cinese. Secondo diverse fonti, Biden ha abbandonato di fatto l’ambiguità strategica che ha caratterizzato la storica politica estera e di deterrenza americana. Per il New York Times la dichiarazione ha stupito anche alcuni membri della sua stessa amministrazione presenti nella stanza. Washington ha infatti provato a correggere il tiro, “come detto dal Presidente, la nostra politica non è cambiata” ha affermato la Casa Bianca. Ha inoltre “ribadito la politica dell’Unica Cina e l‘impegno per la pace nello Stretto, evidenziando il ruolo del Taiwan Relations Act per supportare l’isola con i mezzi necessari alla sua difesa”.
Tuttavia, come anticipato qui su Fanpage il 1 marzo, il26 aprilee il17 maggio in cui viene approfondita la questione taiwanese, uno degli elementi fondamentali che rende difficilmente comparabili Kiev e Taipei è proprio relativo all’ambiguità strategica e al suo ruolo di deterrenza. In particolare, nell’ultimo articolo viene citato uno studio che ha coinvolto oltre 4500 esperti di relazioni internazionali americani – gli stessi che hanno previsto l’invasione del Donbass – in cui il 72% è convinto che Washington interverrà militarmente in caso di attacco cinese. Una scelta che rende le azioni di Xi molto più delicate rispetto a quelle di Putin, il quale non sta ingaggiando uno scontro diretto con Biden.
Ennesime conferme
In più occasioni gli Usa hanno fatto trapelare che un eventuale attacco a Taiwan avrebbe visto una risposta militare rispetto a quanto accaduto prima in Afghanistan e poi in Ucraina. Nove mesi fa, nel commentare il drammatico abbandono di Kabul Biden promise che “avrebbe risposto” in caso di attacco a un alleato Nato, ma anche per difendere “Giappone, Corea del Sud e Taiwan”, equiparando così Taipei agli alleati atlantici o a importanti partner come Tokyo e Seoul. Due mesi dopo dichiarò lo stesso durante un dibattito televisivo, anche qui in opposizione ad alcune linee guida stabilite con la Casa Bianca. Fatto, quest’ultimo, avvenuto anche nel definire Putin come un “criminale di guerra” che “non può rimanere al potere”. Il gesto viene perciò interpretato anche come un forte messaggio a tutti gli autoritarismi con rivendicazioni territoriali, che potrebbero vedere nella debolezza dell’ordine internazionale un’occasione per agire e rivalutare il proprio status.
“Alcuni dicono che è una campagna volutamente ambigua, altri che Biden soffre di senilità e parla a vanvera. Io dico che a questo punto ciò non conta più.” afferma su Al Jazeera Matthew Kroenig, vice direttore dell’Atlantic Council’s Scowcroft Center for Strategy and Security. “In caso di guerra” continua l’esperto, “spetterebbe al Presidente decidere se intervenire o meno. Ora abbiamo un’idea piuttosto chiara di quale sarebbe la decisione di Biden in questa evenienza.”
Tokyo, tra deterrenza ed escalation
L’elemento forse più interessante della vicenda sono il luogo e il momento in cui Biden ha deciso di ribadire la posizione. Lo ha fatto in Giappone, Paese che ha anch’esso ribaltato politiche storiche di recente, attraverso il riarmo e l’apertura ad armamenti nucleari. L’annuncio dunque ha, da una parte, lo scopo di aumentare la deterrenza sui cinesi, già accresciuta dall’esito del conflitto ucraino e dalla difficile situazione socio-politica globale e domestica. Dall’altra, ha lo scopo di rafforzare la fiducia sulla sicurezza non solo di Taipei ma anche in Giappone e Corea del Sud, sempre più vicini alla Nato e prossimi alle potenze militari e atomiche di Cina, Nord Corea e Russia.
Allo stesso tempo tuttavia, li pone in una situazione di difficoltà. Nonostante infatti Kishida sia stato d’accordo con la linea di Biden, ribadendo come "tentativi unilaterali di cambiare lo status quo con la forza come in Ucraina non saranno tollerati nell’Indo-Pacifico”, l’impegno preso dagli Usa significa anche un impegno per il Giappone.
“Ovviamente Biden ha detto che l’America ci sta”, ha dichiarato Narushige Michishita, vice presidente del National Graduate Institute for Policy Studies di Tokyo, aggiungendo “questo significa che ci siamo dentro anche noi” e che “i cinesi dovrebbero tenerlo in considerazione”. Taiwan dista appena 104 chilometri da Yonaguni, il punto abitato più occidente dell’arcipelago nipponico, e nell’area circola buona parte del Pil giapponese. Perciò si andrebbe incontro a conseguenze devastanti per l'intera regione. Secondo un recente sondaggio della Taiwanese Public Opinion Foundation, sempre più cittadini sono convinti che in caso di un’aggressione militare cinese nei loro confronti, saranno i giapponesi a intervenire e non gli Usa e, forse, è proprio questo a cui puntano gli americani nello scopo di evitare uno scontro diretto con Pechino, un pò come vale per Mosca, Kiev e Bruxelles.
Seoul e l’incognita Pyongyang
L’approccio utilizzato con la Corea non è molto differente. Nella prima tappa di questo suo primo tour presidenziale in Asia orientale, Biden ha incontrato il neo-eletto Presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol. Qui non si è parlato tanto di Taiwan, quanto di Nord Corea. I due presidenti si sono infatti accordati sul portare avanti esercitazioni congiunte nella penisola coreana, cosa che Pyongyang vede come un atto di ostilità, non diversamente da Pechino con Taiwan.
La mossa perciò non è priva di rischi. Teoricamente, gli Stati Uniti non sono contro il considerare Taipei parte della Cina, sono contro l’idea che l’ordine democratico e socio-culturale della nazione possa essere stravolto con la forza. “L’idea che possa essere preso con la forza, preso solo con la forza, non è accettabile” ha sottolineato il presidente Usa. Tuttavia, secondo diversi analisti, continuare a sposare la politica dell’Unica Cina mentre si abbandona l’ambiguità strategica sull’isola, potrebbe non solo incrinare ulteriormente i rapporti tra le potenze (spingendo Pechino sempre più verso Mosca e lasciando sempre meno alternative ad un nuovo ordine multipolare), ma potrebbe anche rafforzare la propaganda di Xi e la coesione interna al partito e alla nazione, accrescendo l'instabilità a Taiwan, così come negli Usa e nell’intera Asia orientale.
Come il Titanic: la posizione di Pechino
La Cina, che negli ultimi anni ha perseguito imprese e organizzazioni internazionali che hanno mostrato sostegno all’isola di Formosa (a tal punto da far escludere Taiwan dall’assemblea dell’Oms), non ha ovviamente ben digerito la dichiarazione di Biden. “Per ciò che riguarda la sovranità cinese, l’integrità territoriale e altri interessi primari, non c'è spazio per il compromesso” ha dichiarato Wang Wenbin, portavoce del Ministro degli esteri, aggiungendo che non bisognerebbe "sottovalutare la determinazione della Cina nel difendere se stessa”.
Secondo Da Wei, direttore del Centro per la Strategia e la Sicurezza Internazionale della Tsinghua University, “l’amministrazione Biden sta facendo un passo avanti nell’abbandonare la one-China policy, e nel rafforzare l’opposizione a Pechino”. “Mandare truppe è un intervento militare, ma lo può essere anche mandare armamenti. Magari Biden sta giocando di strategia” continua Da, “Tuttavia, vista la sensibilità della questione, se è questo l’interesse dell'amministrazione Biden, allora le relazioni Usa-Cina sono destinate ad affondare come il Titanic”. Secondo gli analisti cinesi su Global Times, gli Usa e i suoi alleati, specialmente il Giappone, stanno usando la crisi ucraina per promuovere “una battaglia cognitiva” volta a favorire l’indipendenza di Taiwan, ma troveranno un muro da parte della Cina. Non conta che si parli di “ambiguità” o “chiarezza” strategica, niente scalfirà la volontà di Pechino di proseguire sulla via prestabilita.
Guerra o pace?
Al netto del presunto pericolo, ad oggi, meno della metà dei taiwanesi (37%) crede che ci sarà un intervento militare e il 56% non ritiene che la guerra sia inevitabile nella risoluzione delle dispute tra Taipei e Pechino. Nonostante la recente visita americana sull’isola e la risposta cinese con incursioni aeree, le attività militari nel Mar Cinese sono in crescita da anni e non sembrano esserci elementi che facciano presagire un imminente attacco. L’intelligence americana ha dichiarato che la Cina sta lavorando attivamente a riprendersi l’isola, ma ha anche dilazionato i tempi di questa possibilità fino al 2030, ribadendo come gli stessi cinesi preferirebbero non utilizzare la violenza militare, come fu storicamente per Deng e Hong Kong. Rimangono aperte soprattutto le importante questioni legate al commercio globale e alle finestre di dialogo con l’Europa, nel tentativo di scongiurare la guerra fredda tra blocchi divergenti e soccorrere quanto rimasto del prezioso multilateralismo.
Allo stesso tempo però, vi sono altre vie che potrebbero ridimensionare i piani e le previsioni occidentali. Da una parte la questione delle Isole Kinmen e Matsu, molto più vicine geograficamente alla Repubblica Popolare che alla Repubblica di Cina. Dall’altra la delicata situazione di Xi Jinping, vicino allo storico terzo mandato ma con due fallimenti sulle spalle in politica estera e domestica vantati come grandi successi: dall’amicizia con Putin alla politica Zero Covid. E i cinesi si sa, la cosa che meno tollerano al mondo è perdere la faccia.