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Taiwan, ultime news

Cosa farà la Cina dopo le elezioni a Taiwan e come cambieranno i suoi rapporti con gli USA

Giorgio Cuscito, analista di Limes: “Tra Cina e Taiwan non possiamo escludere completamente lo scenario peggiore né incidenti nel Mar Cinese Orientale, un luogo in cui quotidianamente le navi di Pechino si incrociano con taiwanesi. Tuttavia in questo momento la Cina non sembra intenzionata a lanciarsi in un’operazione militare su larga scala”.
Intervista a Giorgio Cuscito
Analista geopolitico di Limes
A cura di Davide Falcioni
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William Lai Ching-te
William Lai Ching-te
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William Lai Ching-te, leader del Partito Democratico Progressista (Dpp), ha vinto sabato scorso le elezioni presidenziali taiwanesi. Il prossimo capo del governo ha nettamente sconfitto Hou Yu-ih, il candidato del Kuomintang, partito storicamente avversario di Pechino con cui tuttavia condivide la dottrina che ci sia una sola Cina e che Taiwan ne faccia parte. Per questo la Cina avrebbe gradito la sua vittoria. Terzo piazzato Ko Wen-je, ex sindaco di Taipei e fondatore del Partito popolare: di orientamento progressista, ambisce a conciliare gli interessi cinesi con quelli degli USA.

Nei primi mesi di campagna elettorale William Lai Ching-te ha sovente parlato dell'indipendenza formale di Taiwan, per poi ammorbidire la sua posizione e promuovere piuttosto la perpetuazione dello status quo: ovvero totale autonomia di Taiwan, ma senza formale riconoscimento internazionale. I sondaggi, d'altro canto, dimostrano che anche la grande maggioranza della popolazione la pensa così: no alla riunificazione con la Cina comunista e no alla dichiarazione di indipendenza "de iure", evento che trascinerebbe l’isola in una guerra catastrofica.

Ma quali saranno le politiche che William Lai Ching-te intraprenderà nei prossimi anni? E soprattutto, quali saranno le conseguenze della sua elezione nel rapporto con Stati Uniti e Cina? Fanpage.it ne ha parlato con Giorgio Cuscito, analista, studioso di geopolitica della Cina e dell’Indo-Pacifico nonché curatore, per Limes, del Bollettino Imperiale e autore del saggio "Xi Jinping. Come la Cina sogna di tornare impero" (Piemme).

Giorgio Cuscito, Limes
Giorgio Cuscito, Limes

Lai Ching-te, esponente del Partito Democratico Progressista (DPP), ha vinto le elezioni presidenziali a Taiwan. Quali politiche porterà avanti, soprattutto nel rapporto con Cina e USA?

È molto probabile che Lai Ching-te prosegua nel solco di Tsai Ing-wen e che decida di rafforzare il rapporto di Taiwan con gli Stati Uniti sia dal punto di vista politico che militare. Allo stesso tempo mi aspetto che che il governo taiwanese voglia implementare il processo di costruzione dell'identità culturale eminentemente taiwanese. Non credo, inoltre, che Lai Ching-te voglia ricercare l'indipendenza "di iure" ma cercherà di preservare lo status quo assicurandosi l'indipendenza "de facto", che è quella di cui attualmente beneficia Taiwan. Questo lo si è evinto anche da ciò che il nuovo leader ha dichiarato in campagna elettorale: sebbene in passato abbia espresso posizioni favorevoli a una dichiarazione d'indipendenza, negli ultimi mesi ha ammorbidito questa posizione. Lai Ching-te sa che il mantenimento dello status quo è l'obiettivo più realistico. Il suo governo potrebbe produrre un ulteriore sforzo, dal punto di vista domestico, nel potenziamento del benessere economico e sociale della popolazione. Le elezioni infatti hanno dimostrato come una parte dell'elettorato, quella più giovane, è molto preoccupata per l'andamento dell'economia. Non che le cose vadano male, ma il tasso di crescita del Pil nel 2023 è atteso intorno all'1,4%, il più basso degli ultimi anni. Contestualmente i salari non stanno crescendo proporzionalmente rispetto al costo dei beni immobiliari.

Lei ha detto che il governo di Lai Ching-te potrebbe coltivare la "questione identitaria" taiwanese. Cosa significa?

Mi riferisco a un impegno di tipo pedagogico che da tempo sta portando avanti Taipei per instillare nei giovani l'idea secondo cui Taiwan e la Cina sono entità ben diverse dal punto di vista sia culturale che valoriale. Si tratta di uno sforzo enorme, volto a scollegare Taiwan dalla Cina Continentale al fine di evitare che i taiwanesi possano finire per desiderare volontariamente una riunificazione.

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Le differenze storiche tra la cultura taiwanese e quella cinese sono effettive, o si tratta di una costruzione postuma di una differenza che – in realtà – non esiste?

La storia e la cultura legano indubbiamente Taiwan alla Cina continentale. Per secoli Taiwan ha fatto parte dell'impero cinese, fino a quando non è stata sottratta dal Giappone. È anche vero però che Taiwan non ha mai fatto parte della Repubblica Popolare dal 1949: con la vittoria dei comunisti guidati da Mao Tse-tung i nazionalisti agli ordini di Chiang Kai-shek si rifugirono a Taiwan preservando il nome di Repubblica di Cina, ovvero l'ente statuale che ha preceduto la Repubblica Popolare Cinese sulla terra ferma. C'è quindi una comunanza linguistica e culturale (non dimentichiamo che a Taiwan si parla cinese), le etnie che si trovano a Taiwan sono le stesse che vivono nella Repubblica Popolare. Tuttavia a Taiwan è presente anche una componente indigena, ovvero un ceppo polinesiano che nel corso dei secoli si è mescolato a quello proveniente dalla Cina Continentale. Il governo di Taipei sta fortemente cercando di valorizzare proprio la cultura aborigena, oltre a tutti gli altri elementi politici e sociali che differenziano Taiwan dalla Cina: la presenza di un sistema democratico e la maggiore cura della sfera dei diritti e delle libertà individuali. Questi elementi vengono utilizzati per sottolineare le divergenze tra Taipei e Pechino. Lo scopo è dissuadere la popolazione dal desiderare una riunificazione.

E cosa farà la Cina dopo il voto di sabato scorso? Al di là della retorica bellicosa, prevarrà la linea del dialogo con Taiwan?

Pechino, tramite il suo ufficio per le questioni di Taiwan, ha già dato una prima risposta dicendo che la tornata elettorale ha dimostrato che le posizioni del Partito Progressista Democratico – quello più spiccatamente contrario a una riunificazione – non sono più quelle preponderanti. Questo ci fa intendere che la Cina in futuro cercherà di condizionare l'umore dei taiwanesi nei confronti del loro governo, e lo farà nonostante secondo i sondaggi il 60% della popolazione si percepisca effettivamente taiwanese e desideri il mantenimento dello status quo, ovvero l'indipendenza "de facto". Pechino prevedibilmente accrescerà i tentativi di influenza economica e politica, e non possono essere escluse neppure prove di forza intorno all'isola. Tuttavia è bene notare che negli ultimi mesi il governo cinese ha evitato di mostrare eccessivamente i muscoli. Ci sono però anche altre ragioni. Pechino nel breve periodo sembra intenzionata a dare la priorità alla risoluzione di problemi interni di natura economica e demografica. Inoltre la Cina non vuole essere esclusa dalle filiere produttive mondiali, a partire da quelle nel campo dei semiconduttori. Per questa ragione Pechino sta cercando una distensione tattica con gli USA, come è stato evidente anche nell'incontro tra Biden e Xi a San Francisco. In una situazione del genere mostrarsi eccessivamente minacciosi nei confronti di Taiwan rischierebbe di rivelarsi controproducente. Questo, tuttavia, non significherà che Pechino ammorbidirà la sua retorica, tanto meno che rinuncerà alla riunificazione. La Cina probabilmente alternerà il bastone e la carota, e potrebbe proporre a Taipei anche delle proficue collaborazioni economiche. Taiwan, però, non sembra intenzionata ad avere nessuna sintonia con il governo cinese

È sempre possibile un intervento armato cinese?

Non possiamo escludere completamente lo scenario peggiore né incidenti nel Mar Cinese Orientale, un luogo in cui quotidianamente le navi di Pechino si incrociano con quelle di Taiwan. Tuttavia in questo momento Pechino non sembra intenzionata a lanciarsi in un'operazione militare su larga scala. Da questo punto di vista la guerra in Ucraina ha insegnato molto, mostrando il potenziale militare americano ma anche le conseguenze in termini di immagine e soprattutto di sanzioni economiche. La Cina si affida molto alle esportazioni, non può permettersi di perdere importanti fette di mercato in questo momento storico

Perché Taiwan non dichiara l’indipendenza "de iure" e cosa è lo "status quo" a cui ci si riferisce quando si parla dell'isola?

Per status quo intendiamo l'indipendenza di fatto di Taiwan, Paese che ha un governo, un sistema giuridico indipendente e così via. Taipei ha sempre dichiarato di non aver nessun bisogno di dichiarare l'indipendenza "de iure", potendo godere su quella "de facto". Dalla prospettiva di Taiwan, quindi, lo status quo è lasciare tutto così com'è. E soprattutto non essere annessa dalla Repubblica Popolare.

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Lo status quo di Taiwan fa comodo anche alla Cina? In fondo – nonostante questa situazione – è diventata una delle grandi potenze economiche mondiali…

Lo status quo giova sempre meno alla Cina perché ha comportato un aumento della presenza americana sia dal punto di vista economico che da quello militare nell'indo-pacifico. Dal punto di vista di Pechino la presenza degli USA costituisce un vincolo importante alle sua ambizioni marittime. Bisogna pensare a Taiwan come all'anello più importante di una catena di isole che contiene la Cina, quella catena va dal Giappone a Singapore. Lungo questa catena è dislocata una rilevante presenza militare americana. Se Taiwan finisse sotto il controllo cinese Pechino potrebbe aggirare il contenimento statunitense. È questa la ragione per cui lo status quo inizia ad andare molto stretto alla Repubblica Popolare: perché vincola le sue potenzialità e il suo accesso al mare. Tuttavia per la Cina la stabilità interna ha ancora la priorità sulla riunificazione con Taiwan.

Nel novembre del 2024 si terranno le elezioni presidenziali statunitensi e Trump potrebbe spuntarla su Biden. Cosa cambierebbe nel rapporto tra USA e Cina?

Difficile dare una risposta: ormai è una convinzione bipartisan quella secondo cui gli USA devono contenere l'espansine cinese, di conseguenza non possiamo certo aspettarci una distensione dei rapporti tra questi due stati. Il vero problema è semmai un altro: in che modo gli USA intendono contenere la Cina? Una parte degli apparati americani ritiene che sia possibile una coesistenza tra Washington e Pechino, ma un'altra parte ritiene che gli Stati Uniti debbano tagliare subito le gambe alla Cina onde evitare che raggiunga il primato tecnologico, economico e militare. Al momento quindi gli USA non hanno una strategia chiara su come trattare il dossier cinese.

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