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Opinioni

Cosa diciamo al mondo quando mettiamo la bandiera francese sul nostro profilo

Perché ci indigniamo per l’attentato di Parigi e liquidiamo in breve le stragi di Beirut, Baghdad o Kabul? Perché mettiamo la bandiera francese e non quella libanese, siriana, afghana, nigeriana, somala, sudanese? Siamo davvero delle brutte persone?
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“Viviamo in un’epoca globalizzata dove con un clic si può teoricamente conoscere tutto. Ma in realtà nessuno conosce niente. E così il terrore diventa ancora più terrore. Perché ti senti attaccato dagli alieni. Non capisci bene come si è arrivati a questo punto. Ti sei perso le puntate precedenti. Ti sei perso Beirut che era solo due giorni fa, Beirut dove 43 persone hanno perso la vita. Ti sei perso l’intervento russo in Siria. L’attentato ad Ankara alla vigilia del voto. I massacri in Sudan. Gli attacchi agli hotel a Mogadiscio. Non capisci dove ti trovi. In che epoca stai vivendo”.

Queste parole, messe nero su bianco dalla scrittrice Igiaba Scego su Internazionale, restituiscono in maniera chiara l’effetto straniamento e il senso di vertigine che “collettivamente” proviamo di fronte a episodi come questo.

Momenti nei quali la rabbia, l’indignazione, la commozione, l’angoscia, la paura, l’empatia, la disperazione rimbalzano sui social network e vengono frullate insieme, omogeneizzate, rese indistinguibili. Fiumi di parole, migliaia di considerazioni, diluvi di analisi più o meno sensate, ma anche pensieri senza pretese, gesti banali, scelte scontate: tutto contribuisce a una sorta di straniamento collettivo. Che è insieme sospensione del giudizio e fucina di nuove, complesse, domande.

In questo confuso coacervo di idee, opinioni, ipotesi a volte si creano emergenze, questioni, domande “sociali”; nascono contrapposizioni nuove, quelle che sembrano sfumature acquisiscono rilevanza enorme, ciò che può sembrarci superfluo diventa vitale, decisivo.

Attenzione, non si tratta di una “doppia realtà, sociale e reale”; non c’è una separazione tra la nostra vita offline e quella online, non c’è una schizofrenia dei comportamenti. No, in questi casi siamo nel pieno di quella che Giovanni Boccia Artieri descrive come “enhanched reality”, in cui l’immateriale dà forma al materiale e viceversa: una condizione per la quale le nostre condivisioni, le nostre relazioni online, i pensieri che esprimiamo sui social network diventano la nostra stessa esperienza del mondo, oltre che una chiave di lettura essenziale per capire come le altre persone “rispondono alla contingenza del reale”. La nostra vita social è la nostra vita reale, le nostre relazioni social influenzano i nostri comportamenti nel mondo, anzi "sono" i nostri comportamenti. E le nostre interazioni online sono a volte la sola esperienza dei fatti che abbiamo.

Per questo non vanno derubricate a “minori” le questioni e le domande che emergono in momenti del genere. La polemica sul senso di utilizzare un avatar con la bandiera francese, per esempio. O la questione, a essa legata, sui morti di serie A e di serie B. Casi "social" per eccellenza, che come tali vanno affrontati.

Insomma, parlare del perché la risposta occidentale sia così forte in questi momenti non è affatto banale. Chiedersi cosa ci porta a sentirci ora tutti francesi e a liquidare in poche righe gli attentati di Beirut, di Kabul o del volo russo sull'Egitto è vitale. Capire il perché di certe dinamiche, raffrontarle col passato, decrittarne il significato, è fondamentale.

Cominciamo con lo sfatare un mito: non è vero che i media non parlano degli attentati in Libano, delle stragi in Nigeria, della situazione della Siria. Si può discutere sul livello di attenzione e approfondimento, ma la retorica del "e nessuno ne parla" è stucchevole. Una bugia, come spiega Belam, qui.

Può bastare il criterio di prossimità per spiegare la differenza di impatto sull'opinione pubblica? No, non più e non solo. Sia perché, come detto, la globalizzazione ha portato in dote la moltiplicazione delle fonti e la rapidità della trasmissione delle informazioni; sia perché il concetto di “prossimità” non può più essere declinato in termini esclusivamente geografici. Non è la distanza da noi a determinare il modo in cui viviamo un evento e il valore che esso assume.

L’unica componente che sembra avere un peso rilevante è quella relativa alla mole di informazioni che abbiamo a disposizione. Alla quantità e alla qualità delle immagini, delle testimonianze, dei riscontri, della copertura in tempo reale degli avvenimenti, insomma. È un cane che si morde la coda, forse. Ma è evidente che il bombardamento di una simile quantità di informazioni, analisi, scenari produce proprio quell’effetto straniamento che porta su un piano “altro, diverso” il fatto in sé, rendendolo unico, eccezionale, diverso.

Però, gli attentati di Parigi, come hanno notato in molti, sono anche la conferma del cambio di passo nella strategia del terrore. La scelta è stata quella di colpire le persone comuni nella loro quotidianità: una cena al ristorante, una partita di calcio allo stadio, un concerto in un teatro. Nessuno è al sicuro, sembrano dire, perché la “colpa” è lo stile di vita, l’appartenenza a un certo modello di società. Nessuno è al sicuro perché tutti sono coinvolti in quello che è uno scontro ideologico e religioso, prima che politico e militare. Nessuno è al sicuro perché tutti possono essere raggiunti dalla violenza e dalla rabbia.

È una strategia chiara e, purtroppo, efficace. Perché mira a sovrapporre la lotta politico / militare alla vita quotidiana, a portare lo scontro ideologico nella vita di ognuno di noi, a coinvolgerci in una guerra che prima sentivamo lontana e di cui non conoscevamo la brutalità. Una tattica che riesce a creare (o approfondire) solchi, distanze e barriere, senza lasciarci scelta, costringendoci a un'adesione (il più delle volte inconsapevole) a una causa che nemmeno conosciamo. E che forse nemmeno esiste.

Già, perché la maggior parte di noi non ha che questo tipo di percezione della "guerra di civiltà". Ne fa esperienza in questi momenti e spesso finisce per arruolarsi, mettere l'elmetto e dare concretezza e sostanza a tale bipolarismo. Finendo con il fare proprio il gioco del terrore (dei suoi mandanti, ovunque essi siano, e di coloro che ne beneficeranno) e sancendo il successo di tale strategia.

Una strategia che peraltro è essa stessa figlia dell'omologazione e della globalizzazione. Spiegava Zizek: "I fondamentalisti sono già come noi; segretamente hanno già introiettato i nostri parametri, alla luce dei quali misurano se stessi […] i terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non-credenti. È facile intuire che, combattendo l’altro peccaminoso, combattano in realtà la loro stessa tentazione".

Un falso dualismo che però si nutre di ogni nostra scelta di campo. Che cresce ogni volta che guardiamo con paura il nostro vicino di posto in metropolitana. Che vince ogni volta che abbiamo la tentazione di cedere diritti in cambio dell'illusione della sicurezza.

Probabilmente è questo che facciamo, anche inconsapevolmente, quando usiamo l'avatar con la bandiera francese, ad esempio. Ma siamo sicuri di doverci biasimare? Ecco, a mio modo di vedere la questione è, se possibile, ancora più complessa.

Perché prima ancora del giudizio razionale, è la componente emotiva a prevalere in momenti come questo. Ci sentiamo coinvolti perché potenzialmente potremmo vivere la stessa situazione, ci sentiamo coinvolti perché la nostra quotidianità è quella delle vittime di Parigi, ci sentiamo coinvolti perché vediamo la guerra entrare nelle nostre vite con tutto il suo carico di violenza, ci sentiamo coinvolti perché cominciamo a temere per la nostra sicurezza, ci sentiamo coinvolti perché affiora il dubbio che esista un "nemico" accanto a noi, ci sentiamo coinvolti perché la brutalità è a un passo da noi, ci sentiamo coinvolti perché emerge tutta la nostra debolezza, tutta la precarietà della nostra esistenza. E reagiamo come fa chiunque si sente in pericolo: cerchiamo un rifugio, cerchiamo conforto nell'abbraccio degli altri, cerchiamo unità e solidità laddove vediamo disgregazione e incertezza, cerchiamo qualcuno che ci dica che a noi non accadrà, cerchiamo qualcuno che sia come noi, cerchiamo un modo per non sentirci soli.

Lo facciamo nel modo più conformista possibile? Forse, ma è davvero il caso di essere così severi con noi stessi?

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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