C’è un’immagine assai triste che mostra bene quanto la portata di questo conflitto sia trasversale, ed è quella di Svitlana Krakovska, capo delegazione degli scienziati ucraini al lavoro sul rapporto IPCC, che giovedì 25 febbraio annuncia che molti suoi colleghi non potranno partecipare alle ultime riunioni perché le città in cui stanno si trovano sotto ai bombardamenti e dovranno chiudersi nei rifugi antiaerei.
L’IPCC è il gruppo intergovernativo che circa ogni sei anni raccoglie le valutazioni di scienziati internazionali per fare il punto sul problema climatico, e questa è la prima volta che tra i co-autori figurano scienziati ucraini. Domenica, durante una riunione su Zoom, nonostante l’IPCC solitamente scoraggi apertamente la discussione su questioni geopolitiche, Krakovska ha deciso di affrontare di petto l’elefante nella stanza: “Posso assicurarvi che il cambiamento climatico causato dall’essere umano e la guerra contro l’Ucraina hanno connessioni dirette, nonché le medesime radici – ha dichiarato -, queste radici sono i combustibili fossili e la dipendenza che l’umanità ha nei loro confronti". Il giorno seguente, in un’intervista rilasciata a Time, ha usato parole ancora più esplicite: "Se noi non dipendessimo dai combustibili fossili, la Russia non avrebbe i mezzi per finanziare questa aggressione".
Krakovska ha ragione, il cambiamento climatico e questo conflitto sono strettamente interconnessi; attenzione, però: questo non significa che la crisi climatica basti a spiegare la situazione attuale. Piuttosto, la guerra che oggi sta devastando le città ucraine è il prodotto di una complessa combinazione di circostanze storiche, geopolitiche ed economiche che la crisi climatica sta contribuendo a esacerbare.
Cosa dice il rapporto IPCC, in sintesi
La seconda parte del VI rapporto di valutazione IPCC è un documento che si concentra sulle ricadute attuali e future della crisi climatica, sulle vulnerabilità del nostro pianeta e sulle possibilità di adattamento che abbiamo a disposizione. Parliamo di 3000 pagine redatte e sottoscritte da oltre 200 scienziati provenienti da tutto il mondo, ed è dunque uno dei documenti più rilevanti per valutare la gravità della situazione in cui ci troviamo. Ci si aspettava un resoconto drammatico, ma il bilancio è persino peggiore delle aspettative. In sostanza: né le misure già adottate né quelle promesse dai governi negli scorsi mesi sono lontanamente sufficienti a mantenere il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5 gradi; allo stato attuale ogni singolo punto abitato del pianeta si ritroverà a subire gli impatti della crisi climatica, con almeno metà della popolazione mondiale che si trova in una condizione di “rischio elevato”; non solo, la Terra sta perdendo la sua capacità di assorbire carbonio, il che significa che le nostre possibilità di adattamento diminuiscono significativamente a ogni decimo di grado.
La parola “conflitto” compare più volte nel rapporto, ma sempre in forma dubitativa e in apparente contrasto con quanto dichiarato da Krakovska. Mentre si afferma fuori da ogni dubbio che il cambiamento climatico contribuisce a creare crisi umanitarie laddove c’è un’interazione tra gli impatti climatici e un’elevata vulnerabilità ambientale, si legge anche che “rispetto ad altri fattori socioeconomici, l’influenza del clima sui conflitti è relativamente debole.”
Ma se può risultare difficile tracciare un collegamento netto tra le ricadute della crisi climatica e l’insorgere di conflitti, è facile osservare come questa emergenza stia aggravando tutte le dinamiche che concorrono a creare le condizioni per nuove guerre. Come abbiamo detto più volte, il cambiamento climatico non crea solo problematiche nuove, più che altro va a esacerbare dinamiche e criticità già esistenti; è un “moltiplicatore di minacce”, o un “acceleratore di instabilità”, per utilizzare due locuzioni ricorrenti. Questo vale anche per i conflitti armati e, naturalmente, anche per questa guerra in particolare.
Una pericolosa dipendenza dal gas
Quando Krakovska dice che senza la nostra dipendenza dai combustibili fossili Putin non avrebbe i mezzi per portare avanti una guerra così dissennata si riferisce al fatto che l’economia russa è pesantemente incardinata all’esportazione di gas e petrolio. Nello specifico, le esportazioni fossili coprono il 36% del bilancio pubblico, e una buona parte di questi introiti arrivano dai paesi europei, che dalla Russia importano quasi il 40% del gas che consumano. Circa un terzo di questo gas arriva in Europa tramite gasdotti che passano per l’Ucraina, un potenziale collo di bottiglia che Putin vorrebbe aggirare aprendo il gasdotto Nord Stream 2, che consentirebbe di trasportare 55 miliardi di metri cubi di gas l’anno passando per il Mar Baltico e raggiungendo direttamente le coste tedesche. Questo gasdotto, oggi bloccato dalla stessa Germania, metterebbe Mosca in una posizione di maggiore forza, poiché consentirebbe di bypassare tutti i paesi europei da cui oggi transita il suo gas, in particolare l’Ucraina e le nazioni baltiche.
Secondo alcuni esperti non è un caso che Putin abbia scelto l’inverno per muovere una simile offensiva: i mesi invernali sono quelli in cui la richiesta di gas è maggiore; in più questo è un inverno particolare, perché le riserve di gas europee sono ai minimi storici: colpa dei consumi schizzati alle stelle per la ripresa post-covid e per via di un’estate incredibilmente calda, ma anche del fatto che negli ultimi mesi dalla Russia è arrivato meno gas di quanto le nazioni europee abbiano richiesto in vista del periodo invernale.
C’è chi sostiene che a pesare sulla scelta di Putin di invadere ci sia il fatto che l’Unione Europea si sta muovendo sempre di più verso le rinnovabili, una prospettiva che Mosca ha tutti gli interessi a contrastare, o quantomeno rallentare, avendo forsennatamente incentrato la crescita economica del suo paese sugli idrocaburi. A questo si aggiunge il fatto che nel 2012 sono stati scoperti nuovi giacimenti di petrolio e gas fossile nella zona di Mar Nero che circonda la penisola di Crimea, che si vanno aggiungere a quelli di gas d’argille presenti vicino a Donec’k e Charkiv, per volume un totale di 2000 miliardi di metri cubi. Se da un lato, insomma, Putin ha interesse che l’Europa continui a dipendere dal gas, dall’altro vuole impedire che l’Ucraina possa produrne in autonomia, diventando a sua volta una potenza fossile.
Non solo gas: il ruolo dell’acqua
Una delle prime infrastrutture distrutte dall’esercito russo è stata una diga situata nella regione di Cherson, nell’Ucraina meridionale. Non si è trattato di un incidente, o di un danno collaterale, Mosca ha scelto quell’obiettivo per una ragione precisa: consentire alla Crimea, una zona che controlla dal 2014, di avere accesso all’acqua proveniente dal fiume Dnepr riallacciandosi a un lungo canale che percorre tutto il confine nord della regione. Prima del 2014, da questo canale passava l’85% dell’acqua utilizzata dalla Crimea, abbastanza per rifornire 3,7 milioni di persone e diversi impianti industriali. Ma in seguito all’annessione della Crimea l’Ucraina ha ridotto il flusso d’acqua, prosciugando letteralmente quella che per la Russia è una regione cruciale. Il risultato è che negli ultimi due anni la Crimea ha attraversato i peggiori periodi di siccità della sua storia.
E se già oggi lo sfruttamento di risorse idriche può contribuire ad alzare la temperatura di un conflitto, nei prossimi decenni la situazione pare destinata a peggiorare. Non è un caso che l’IPCC dedichi ampio spazio proprio all’acqua, indicandola come fattore decisivo nell’emergere di nuovi potenziali conflitti. Nel documento si legge: "Con l’aumento delle temperature globali, gli impatti del clima e gli eventi estremi, in particolar modo la siccità, concorreranno ad aumentare la vulnerabilità di molte zone andando a incidere sempre di più sulla possibilità di nuovi conflitti". Il rapporto sottolinea come già oggi metà della popolazione terrestre sia esposta, in alcune parti dell’anno, a una grave scarsità idrica. Questa quota potrebbe aumentare parecchio negli anni a venire, per via dell’incremento delle temperature, delle trasformazioni nei pattern delle precipitazioni, e del crescente consumo idrico dovuto alle attività umane. Non bastasse, solo un mese fa uno studio condotto dall’Istituto di Geoscienze Ambientali di Grenoble ha rivelato come i ghiacciai montani custodiscano meno acqua di quanto si pensasse in precedenza (l’11% in meno, ad essere precisi).
Bisogna poi tenere conto di un altro fattore: l’Ucraina oggi è uno dei massimi esportatori di frumento (12% del globale), mais (16%), orzo (18%) e colza (19%). Già ai tempi dell’URSS era considerata “il granaio dell’Unione Sovietica”; oggi sia la Russia che l’Ucraina hanno aumentato le esportazioni cerealicole, al punto da essere considerate delle “superpotenze agricole”. Ma se da un lato la quantità di nazioni che si affidano a questi due paesi per le importazioni di cereali aumenta, dall’altro le ricadute della crisi climatica in Ucraina si stanno facendo sentire ogni anno di più. I frequenti episodi di siccità hanno inciso sugli ultimi raccolti, prospettando un aumento dei prezzi che avrebbe ricadute a livello globale.
Uno degli scenari più temuti, infatti, è che il conflitto in corso finisca per minacciare la sicurezza alimentare di paesi che oggi dipendono proprio da Russia e Ucraina per l’importazione di cereali, sementi e fertilizzanti. Il conflitto potrebbe compromettere i corridoi commerciali a cui si affidano paesi del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, in particolar modo quelli, come l’Afghanistan, che negli ultimi anni hanno subito pesanti perdite agricole proprio a causa di siccità e altre ricadute climatiche.
Una guerra che rischiamo di perdere tutti
Nell’esplorare il ventaglio di ragioni per cui l’Ucraina è al centro delle ossessioni di Putin non bisogna dimenticare che anche la Russia si trova già oggi a subire le ricadute della crisi climatica. E non soltanto perché ha un’economia rigidamente incardinata all’esportazione di combustibili fossili, ma anche perché, come abbiamo spiegato in questo pezzo, una parte consistente delle infrastrutture e delle industrie russe poggiano sul permafrost, che di qui al 2050 potrebbe ridursi di un terzo, comportando perdite per oltre 100 miliardi di euro.
In quest’ottica, l’Ucraina non rappresenta per la Russia soltanto un impedimento alle proprie mire economiche e politiche, o un potenziale rivale nella produzione di gas fossile, ma anche un territorio ricco di risorse su cui mettere le mani: oltre ad avere una grande abbondanza di bacini idrici, ospita infatti il 35% della biodiversità presente in Europa (nonostante occupi solo il 6% del territorio), inoltre è coperta per il 16% da foreste, e l’esportazione di legname, come quella di cereali, è parte integrante della sua economia.
Nel concludere il suo intervento in occasione della chiusura del rapporto IPCC, Svitlana Krakovska, dopo aver rimarcato l’importanza di ridurre la dipendenza mondiale dai combustibili fossili (e dalle nazioni che li esportano), ha fatto un appello affinché si scongiuri un orizzonte geopolitico tanto terribile quanto plausibile: “Se qualunque grande nazione è nella posizione di prendere d’assalto una nazione vicina dotata di suolo ricco, una buona gestione idrica e buone foreste, noi allora non siamo nella posizione di affrontare il cambiamento climatico” ha dichiarato “Se perdiamo noi, perdono tutti. Perché questi aggressori non si fermeranno mai.”