Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto che la morte di Nahel, il ragazzo di 17 anni ucciso nella periferia di Parigi da un agente di polizia, è “inspiegabile”.
Ma in molti non sono d’accordo. Soprattutto le migliaia e migliaia di giovani che per giorni hanno protestato violentemente in tutta la Francia. Ragazzi e ragazze, prevalentemente francesi di seconda o terza generazione, provenienti dalle periferie, le banlieues. L'esplosione della rabbia dopo i fatti di Nanterre dimostra tutte le contraddizioni della società francese, a partire dal razzismo istituzionalizzato della polizia, perennemente negato, dalla segregazione culturale ed economica figlia di un passato coloniale mai realmente affrontato e da una serie di quesiti irrisolti su cosa sia davvero l’identità francese.
È il 27 giugno: a Nanterre, periferia parigina, un ragazzo di 17 anni e di origine algerina, Nahel, viene ucciso da un colpo di pistola per non essersi fermato a un posto di blocco. Ad aprire il fuoco è un poliziotto, che in un primo momento racconta di aver sparato quando ha visto che la macchina guidata dal ragazzo stava per travolgerlo. Avrebbe agito, quindi, per legittima difesa. Un video amatoriale diffuso poco dopo, però, smentisce la versione dell’agente: la macchina è ferma, l’agente punta l’arma verso il finestrino del conducente, parte un proiettile, la macchina balza in avanti e si schianta pochi metri dopo.
Nahel è stato ucciso da un singolo colpo, che gli ha perforato il torace. Il poliziotto è stato arrestato ed è ora indagato per omicidio volontario.
È stato proprio il video, la bugia smascherata e quello che poteva essere un nuovo caso di impunità nelle forze dell’ordine, a far scoppiare le proteste. Prima nella capitale, poi in diverse città francesi. Presto dalla Francia sono cominciate ad arrivare immagini di auto incendiate, sedi delle istituzioni prese d’assalto, scontri con agenti in tenuta anti-sommossa. L’Eliseo ne ha schierati 45mila. Diverse persone sono state arrestate.
Impossibile non ripensare a quanto accaduto nel 2005, quando da un’altra banlieue parigina esplosero le proteste, che si diffusero a macchia d’olio al resto del Paese per tre settimane, quando due ragazzi rimasero uccisi mentre cercavano di fuggire alla polizia. Anche loro figli di immigrati, anche loro abitanti della periferia: stavano tornando da una partita di pallone quando la polizia iniziò a inseguirli, e cercando rifugio in una cabina della rete elettrica morirono folgorati.
Le autorità continuano a parlare di casi isolati, di tragici incidenti. Le rivolte, però, raccontano un’altra storia. Una storia di violenza della polizia, troppo spesso impunita, di ghettizzazione e discriminazioni, di precarietà economica e sociale.
“Libertà, uguaglianza e fratellanza”, non è una massima che sembra valere nelle periferie. A Clichy-Sous-Bois, dove sono morti i due ragazzi nel 2005, il tasso di povertà è fino a tre volte superiore alla media nazionale. Nelle banlieues disoccupazione, precarietà e descolarizzazione sono di casa. Ad abitare qui, inoltre, la stragrande maggioranza della popolazione è immigrata, o figlia di famiglie provenienti dalle ex colonie. Comunità marginalizzate, escluse dal cuore pulsante parigino.
E sono proprio loro a denunciare la violenza delle forze dell’ordine, la police brutality nei loro confronti. La polizia francese è stata più volte accusata di ricorrere eccessivamente alla forza e di farlo sistematicamente contro le minoranze. Anche Amnesty international ha parlato di discriminazioni continue nei confronti di persone di alcune comunità. Così come le Nazioni Unite: allo scoppio delle proteste dopo l’omicidio di Nahel, la portavoce della commissione per i diritti umani dell’Onu, Ravina Shamdasani ha sottolineato come questo sia il momento per la Francia di affrontare una volta per tutte la questione del razzismo delle forze dell’ordine.
Un report del 2017 del Difensore dei Diritti, un’autorità del governo francese, ha sottolineato come uomini neri o di origine araba avessero una probabilità fino a venti volte più alta di essere fermati per un controllo dalle forze dell’ordine. La cosa più grave è che non si tratta di innocui accertamenti: negli ultimi anni sono aumentate le violenze ai posti di blocco e, chiaramente, la maggior parte delle persone ferite o uccise dalla polizia per strada è nera o di origine araba.
Non è una coincidenza. Nel 2017 in Francia è stata approvata una legge sulla pubblica sicurezza che interviene sull’utilizzo delle armi da fuoco da parte della polizia, di fatto ampliando i casi in cui poter parlare di legittima difesa da parte degli agenti. Tra questi c’è anche il rifiuto di ottemperare ai controlli: in altre parole, la polizia può sparare se una persona non si ferma a un posto di blocco e così facendo “rischia di perpetrare, durante la fuga, attentati alla vita o all’integrità fisica altrui”. Anche se la norma dichiara comunque un principio di proporzionalità e di assoluta necessità, il numero di sparatorie contro macchine in movimento è aumentato dall’entrata in vigore di questa legge. E, appunto, le vittime sono per la maggior parte uomini di origine africana o araba.
Secondo la scrittrice e attivista Rokhaya Diallo non vi è dubbio che all’interno delle forze dell’ordine francesi vi sia un problema di razzismo. Ma, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti, le autorità in Francia pressoché indipendentemente dallo schieramento politico continuano a parlare di incidenti e a negare che ci sia un problema. Perché?
Sarebbe impossibile rispondere a questa domanda senza parlare del mito della laicità francese e della retorica sullo stesso concetto di identità francese, figlia della visione imperialista dei secoli scorsi: una pretesa di società daltonica, che non fa distinzione tra il colore della pelle dei suoi cittadini, tra le loro provenienze. Francese è chiunque abbracci i valori della rivoluzione e dell’illuminismo, che venga dal centro o dalle periferie. Non inteso come centro della capitale e banlieues, ma come Francia e colonie.
La Francia per decenni nelle colonie ha imposto un processo di “francesizzazione”, ha obbligato ad assimilare la cultura francese al di là del Mediterraneo, degli oceani Atlantico e Indiano. Ha cercato di fondere l’impero coloniale attraverso l’omogeneizzazione culturale, unendo centro e periferie attraverso un’identità francese gemella in ogni territorio sotto il dominio di Parigi. Lo ha fatto, ovviamente, con la forza.
Il governo di Macron ha riconosciuto il passato coloniale come un “crimine contro l’umanità” e un “atto di barbarie”. Ma al di là di qualche dichiarazione (all’occorrenza, durante le visite nei Paesi Nord Africani), l’Eliseo non ha fatto molto per guarire le ferite dell’epoca imperialista. Anzi, tutt’oggi la Francia mantiene rapporti di influenza economica, politica e militare con le ex colonie. Per non parlare dei possedimenti territoriali oltre Oceano.
Non c’è mai stato un processo post-coloniale in cui Parigi facesse davvero a patti con l’eredità della sua storia. E riconoscesse la sua stratificazione sociale per quello che è. L’identità francese per molti resta un concetto fantascientifico. Secondo la scrittrice e accademica franco-senegalese Mame-Fatou Ninag in Francia ci sono famiglie arrivate da quelle che oggi sono le ex colonie oltre cento anni fa, ma che ancora si sentono straniere. Nonostante siano cittadini francesi a tutti gli effetti.
Intere generazioni hanno fatto finta che il trauma del passato coloniale, e tutto quello che ciò comporta, non esistesse. Ma le giovani generazioni non hanno più intenzione di vivere impassibili con queste cicatrici.
L’età media delle persone arrestate durante le rivolte di questi giorni è di appena 17 anni. Come quella che aveva Nahel. Sono i giovanissimi a scendere per le strade. Ma la loro non è solamente una protesta contro la polizia: stanno colpendo violentemente anche scuole, comuni, gli edifici delle istituzioni. È una protesta che riguarda tutto il sistema, tutto l’establishment che accetta la marginalità sociale crescente nelle periferie, il loro isolamento politico ed economico dal resto del Paese, i processi di semi-segregazione e ghettizzazione di intere comunità. Il politologo Oliver Roy ha sottolineato come in Francia l’ascensore sociale abbia chiuso le porte a intere zone del Paese, lasciandole indietro. Abbandonando le banlieues alla precarietà.
I giovani francesi di seconda o terza generazione delle periferie si sono trovati ai margini di una società in cui non si riconoscevano, hanno covato una rabbia e una frustrazione che sono esplose di fronte alla violenza della polizia contro un loro coetaneo.
Nel fallimento dell’integrazione in tanti hanno cercato modelli alternativi, alcuni li hanno trovati nell’Islam. La radicalizzazione religiosa, però, è conseguenza di una frattura culturale e sociale, non la sua causa. Descrivere le rivolte di questi giorni, così come quelle del 2005, in chiave jihadista è pura strumentalizzazione dei fatti.
Ha provato a farlo l’estrema destra, organizzando vere e proprie ronde: militanti armati di spranghe sono scesi in piazza contro i manifestanti, gridando di voler restituire “la Francia ai francesi”. Non solo: l’ex portavoce di Eric Zemmour, il candidato dell’estrema destra alle ultime presidenziali, ha organizzato una raccolta fondi che ha già superato il milione di euro. Quella per il diciassettenne, invece, nemmeno la metà di questa cifra.
Dopo notti di coprifuoco e repressioni, le proteste sembrano essersi placate. Ma nemmeno questa volta le élites e le autorità francesi hanno affrontato il problema alla radice. Non hanno guardato al disagio economico e sociale delle banlieues, alla loro marginalizzazione politica, alle fratture nel Paese, al razzismo endemico della polizia. Finché non lo faranno, le rivolte sono dietro l’angolo.