La lunga linea del fronte russo-ucraino che si estende dalla penisola di Kinburn sull’estuario del Dnepr fino al fiume Oskil nel Donbas settentrionale è tornata incandescente nelle ultime ore per l’intensificazione delle incursioni russe. In particolare le zone più calde riguardano diverse località nell’oblast’ di Kharkiv e in quello di Donetsk, nello specifico la battaglia per Chasiv Yar. Eppure, benché il governo ucraino abbia parlato dell’inizio dell’attesa offensiva russa, non ci sono ancora gli elementi caratterizzanti una grande campagna di primavera. Si tratterebbe piuttosto di tentativi di incursione e sfondamento delle linee difensive ucraine condotte da diverse truppe da ricognizione russe. Del resto, lo scorso marzo, il presidente russo Vladimir Putin aveva già espresso la volontà di ritagliarsi una zona cuscinetto al confine con l’Ucraina per proteggere l’oblast’ di Belgorod, oggetto in passato di azioni di incursione ucraine.
Al contrario, a ben guardare, l’osservazione delle condizioni del campo di battaglia porterebbe teoricamente a concludere che attualmente persistono le premesse territoriali per un negoziato politico.
Anzitutto, benché l’esercito di Mosca sia in fase offensiva e quello di Kiev sulla difensiva più o meno lungo tutti i 1000 km di fronte, la guerra resta ancora in fase di attrito e logoramento. I russi avanzano ancora lentamente, nell’ordine di appena qualche chilometro al giorno nelle condizioni migliori.
Il fronte ucraino soffre di un deficit di uomini e munizioni che non accenna ad arrestarsi. Secondo gli esperti, il pacchetto di rifornimenti militari varato dopo mesi e mesi di stallo al Congresso americano può permettere all’Ucraina di sopravvivere fino alla fine dell’anno, più precisamente di evitare la capitolazione almeno fino alle elezioni presidenziali statunitensi del prossimo 5 novembre. Ma che gli aiuti permettano a Kiev di ridarsi alla controffensiva o di recuperare il territorio perso sembra fuori discussione. Basti pensare che i nuovi aiuti sono nettamente inferiori a quanto venne messo a disposizione dell’esercito ucraino alla vigilia della fallimentare quanto attesa controffensiva della scorsa estate.
Qual è allora la valutazione presumibilmente fatta da Washington dietro questi approvvigionamenti? Che servano per cambiare il calcolo dei rischi del Cremlino, in altre parole, convincerlo che conviene trattare perché potrebbe ancora perdere qualcosa, come la Crimea. L’invio da parte delle cancellerie occidentali come Stati Uniti, Regno Unito e Italia dei rispettivi missili a lunga gittata come gli Atacms e gli Storm Shadow sarebbero da interpretare in tal senso: l’ormai classica linea rossa di non utilizzare armi offensive per penetrare in profondità il territorio russo non varrebbe in riferimento alla penisola eusina che resta a tutti gli effetti parte dei confini internazionalmente riconosciuti dell’Ucraina indipendente del 1991. Chiariamoci: questo non significa che gli americani credano davvero che gli ucraini possano realmente riprendersi la Crimea. Affatto. La scommessa qui è solo psicologica e punta a far recuperare margine e leva negoziale a Kiev in vista di future trattative e farne perdere di riflesso a Mosca, attualmente in netto vantaggio.
Quanto alla mancanza di uomini disposti ad andare al fronte, i tempi delle lunghe file dei volontari ucraini impazienti di imbracciare le armi perché forti del sentimento messianico di lottare per l’indipendenza del paese, sono lontani. E quando non c’è più volontà, arriva l’obbligo. A metà aprile, il parlamento monocamerale del paese, la Verkhovna Rada, ha approvato la nuova normativa sulla mobilitazione militare, inasprendo le regole sull’arruolamento e l’addestramento di nuovi combattenti. Su tutte, due provvedimenti appaiono particolarmente gravi. Primo, si nega l’accesso a diversi servizi pubblici, tra cui l’assistenza sanitaria, a tutti gli uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni che non effettuano la registrazione presso i centri di reclutamento. Secondo, si abroga il paragrafo sulla smobilitazione dopo 36 mesi, con la conseguenza che ai militari viene tolta la possibilità di congedarsi dall’esercito dopo tre anni di combattimento. Detta altrimenti, chi viene spedito al fronte parte con la rassegnazione di restarci probabilmente fino alla morte perché non ha più la speranza di poter decidere un giorno di tornare a casa. Di più. Qualche settimana fa, i ministri della Difesa di Lituania e Polonia, la principale destinazione di molti uomini ucraini che hanno lasciato l’Ucraina, hanno detto di volersi impegnare per assistere il paese nel rimpatrio dei cittadini che negli ultimi due anni lo hanno lasciato per evitare di essere arruolati nell’esercito.
Non solo. In Ucraina più passa il tempo più si corre il rischio di un cedimento del fronte interno. A fine marzo, il comandante delle forze di terra, il tenente generale Alexander Pavlyuk, ha accusato i media di contribuire a distruggere “l’unità e la coesione” degli ucraini attraverso notizie eccessivamente negative sugli sforzi di reclutamento dell’esercito. In un post su Facebook, Pavlyuk ha dichiarato che il nemico russo avrebbe potuto così sconfiggere Kiev “con l’aiuto degli ucraini stessi”.
Sul fronte opposto, la Russia, con un’economia riconvertita, è entrata in modalità “guerra lunga” perché convinta di avere il tempo dalla propria parte. I russi sanno di essere in vantaggio e per questo non scalpitano per un cessate il fuoco. Sanno che continuando a combattere possono ad esempio puntellare la linea del fronte con la presa di ulteriori avamposti più distanti dalla loro prima linea di difesa, mentre persistono nel logorare il morale ucraino sperando prima o poi in un collasso dall’interno. Tanto più adesso che gli aiuti americani devono ancora arrivare. È molto probabile, insomma, che la Russia riesca a mantenere piuttosto serenamente l’occupazione, il controllo e il governo de facto di quel 18-20% del territorio ucraino già conquistato, composto da porzioni delle oblast’ di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhia e circa 2/3 dell’accesso al Mar Nero. Quanto lascerebbe presagire al consolidamento di una linea di contatto propedeutico alla cosiddetta “soluzione coreana”, uno scenario immaginato da oltre un anno nelle stanze degli strateghi occidentali e che prevederebbe la partizione del territorio ucraino e la concessione di reciproche garanzie. La richiesta prioritaria di Mosca rispetto allo spazio ucraino è sempre stata la sua neutralità e denuclearizzazione. In altri termini, la certezza che il territorio non venga progressivamente inserito nell’Alleanza Atlantica. Altra questione sarebbe l’adesione all’Unione Europea che stando ai termini del primo e unico negoziato intervenuto fra i due belligeranti – quello di Istanbul risalente all’aprile 2022 e di cui la rivista statunitense Foreign Affairs ha recentemente pubblicato una delle bozze – non avrebbe creato problemi di sorta a Mosca perché senza ripercussioni militari.
E, tuttavia, finora l’idea di riaprire un dialogo su una possibile coesistenza fra Russia e Ucraina per via diplomatica sembra assolutamente tabù. Un discorso difficile che evidentemente gli americani – che con i russi hanno sempre continuato a parlare come testimoniato anche recentemente dalle informazioni di intelligence passate da Washington a Mosca sulle attività terroristiche operanti in Russia prima dell’attentato del Crocus City Hall – stanno avendo difficoltà a sollevare con Kiev. Affrontare l’ipotesi di un cessate il fuoco, di una tregua, significherebbe ammettere una volta per tutte l’impossibilità che l’Ucraina riesca mai a tornare alla sovranità territoriale sui suoi legittimi confini del 1991. E da lì, aprire al discorso ancor più complicato e doloroso di definire quanto e quale territorio può essere lasciato all’invasore russo e, al contrario, quanto e quale deve essere recuperato. Chi e come lo stabilisce? Per ora non è dato saperlo. Su questo tema, fra partner occidentali e Kiev vigerebbe, come definita da alcuni esperti americani, la “cospirazione del silenzio”.
Una cosa è certa. La più recente retorica bellicista impiegata reciprocamente dall’Occidente – con la Francia che minaccia di inviare truppe in Ucraina e il Regno Unito che istruisce l’esercito ucraino a usare i propri missili per colpire fin dentro il territorio russo – e dalla Russia – che risponde con altrettante minacce contro obiettivi britannici in Ucraina e ordinando esercitazioni nucleari con armi tattiche – continua a esacerbare l’incomunicabilità fra i due fronti, dilatando i tempi di una possibile trattativa. La guerra, del resto, è un processo che una volta iniziato sfugge al controllo di aggredito e aggressore, procede per reazione e controreazione, incidenti, propaganda e, soprattutto, si auto-alimenta. La polarizzazione crescente, l’innalzamento progressivo delle regole d’ingaggio e l’intensificazione delle ostilità sono fisiologici se nessuno dei due palesa alla controparte la volontà di arretrare di un passo, che sia territoriale o retorico. L’escalation e la de-escalation controllata fra Iran e Israele qui insegna.
Qualora poi risultasse impossibile condurre Kiev o i suoi partner più vicini alle sue rivendicazioni e paradigmi securitari (come Polonia, paesi baltici e Regno Unito) ad accettare l’opzione di una divisione del territorio ucraino, non solo si configurerebbe l’ipotesi di una guerra senza fine e senza soluzione, ma diverrebbe verosimile anche la progressiva annessione dell’Ucraina rimasta finora libera alla NATO. Se così fosse non solo sarebbe difficile immaginare il ritorno della pace nel Vecchio Continente. Peggio. Qualsiasi eventuale tregua o cessate il fuoco non farebbe che cristallizzare temporaneamente una situazione molto più esplosiva. Per la prima volta dal crollo del muro di Berlino, fra Russkij Mir (mondo russo) e Occidente (in senso collettivo, come lo intende Mosca, ovvero la sfera d’influenza americana) non ci sarà più nessuno spazio cuscinetto. E decadendo formalmente o materialmente tutte le zone di “neutralità” che finora avevano ridotto il complesso d’accerchiamento russo e scongiurato la riproposizione di una nuova cortina di ferro – dal Mar Baltico con Svezia e Finlandia fino al Mar Nero – verrebbe a mancare anche la garanzia che il Cremlino non decida di applicare un altro principio della sua sicurezza (fra l’altro, scippato all’impero romano), ovvero il cosiddetto “espansionismo difensivo”. Ergo: attaccare preventivamente l’avversario prima che lui attacchi Mosca. Senza diplomazia, il futuro è l’ennesima polveriera europea.