Il 24 agosto è stato un giorno speciale a Kyiv: oltre ad essere la celebrazione della Giornata dell’Indipendenza dell’Ucraina (la principale festa nazionale) ha rappresentato il compimento del sesto mese di guerra.
È stato anche il momento di fare un primo bilancio e trarre alcune conclusioni: quella che inizialmente avrebbe essere dovuto una guerra lampo si è trasformata invece in una lunga guerra di logoramento, che rischia di danneggiare per sempre l’immagine della Russia come superpotenza militare.
Ormai da più di un mese e mezzo la Russia non avanza più nel Donbass, mentre nel sud dell’Ucraina i russi si preparano ad una possibile controffensiva ucraina che è stata annunciata più volte ma finora non è mai iniziata sul serio.
Intanto gli ucraini hanno dimostrato di poter colpire in profondità dietro le linee nemiche grazie all’aiuto delle armi fornite dai Paesi occidentali e di gruppi di sabotatori (in buona parte forze speciali e partigiani) che lavorano nei territori occupati dai russi.
Ma come è stato possibile tutto questo? Ed era davvero così scontato sin dall’inizio che le cose andassero in questo modo? Nonostante le rassicurazioni di Mosca (“va tutto come previsto”) non è esattamente così.
Ripercorriamo assieme ciò che è successo per cercare di comprendere come si siano modificati gli obiettivi nel corso del tempo e perché arrivati a questo punto sia sempre più necessario supportare la lotta dell’Ucraina per la sua sopravvivenza.
I primi giorni di guerra: la disperata difesa della capitale
Quando i russi hanno iniziato quella che definiscono ancora oggi come la loro “operazione militare speciale” in Ucraina, l’obiettivo immediato era quello di decapitare la leadership dello Stato ucraino puntando direttamente sulla capitale.
Secondo il piano di Mosca, la inevitabile caduta di Kyiv a causa della superiorità militare russa, avrebbe dovuto innescare un effetto domino anche sui governatorati regionali, portando velocemente al collasso del fronte in tutto il Paese ed alla conseguente resa.
Nelle cancellerie occidentali nessuno credeva realmente che l’Ucraina sarebbe stata in grado di resistere di fronte alla potenza militare russa. Di conseguenza nessun Paese, a partire dagli Stati Uniti, aveva fornito al governo ucraino quelle armi che sarebbero servite per difendersi da una invasione su larga scala.
La gran parte delle armi che erano state consegnate fino a quel momento, come Javelin e Stinger, erano più adatte ad una campagna di guerriglia partigiana, che non ad un esercito che doveva difendersi dall’ondata d’urto delle forze russe in avanzata.
A Mosca, ovviamente, già si sognava ad occhi aperti la grande vendetta: una parata di soldati russi nel centro della capitale ucraina, marciando su Maidan, la piazza simbolo della rivoluzione ucraina del 2014 che aveva portato alla caduta del presidente filorusso Viktor Yanukovich.
Come ha reso noto di recente il Washington Post, gli agenti del FSB russo si stavano addirittura già preparando a gestire il dopo guerra affittando case sicure nella periferia della capitale ucraina. Insomma, tutto sembrava pronto per il trionfo di Putin. Ma poi le cose sono andate diversamente.
Un elemento chiave del piano del Cremlino era la convinzione che il presidente Volodymyr Zelensky e la sua Amministrazione, di fronte all’avanzata militare russa verso la capitale ucraina, se ne sarebbero scappati lasciando sguarnita la città. Di conseguenza, le autorità restanti avrebbero subito chiesto la resa per evitare un massacro di civili.
Ma Zelensky ha invece ripetutamente rifiutato l’ipotesi di andare via dalla capitale. Anzi la sera del 25 febbraio si è fatto riprendere in video assieme ai membri di più alto livello del suo governo e del suo partito, nella strada di fronte al palazzo presidenziale nel centro di Kyiv completamente deserto a causa della guerra e del coprifuoco.
In quelle ore c’erano scontri alla periferia della capitale, e gruppi di sabotatori russi erano già in giro per le sue strade nel vano tentativo di scatenare violenze, provare ad uccidere il presidente e distruggere il morale dei difensori ucraini.
La decisione di Zelensky di restare a Kyiv, nonostante il rischio immediato per la sua vita, viene considerata ancora oggi il momento fondamentale delle ore iniziali della guerra.
Il piano russo per la conquista della capitale prevedeva una doppia manovra a tenaglia da nord-ovest (passando dall’area di esclusione di Chernobyl) e da nord-est (bypassando Chernihiv).
Le colonne in avanzata da queste due direzioni si sarebbero poi dovute riunire alla periferia di Kyiv alle divisioni aviotrasportate che dovevano usare come base operativa l’aeroporto Antonov di Hostomel.
La conquista di questo aeroporto nella periferia della capitale è stato perciò l’obiettivo principale dei russi nelle prime ore di battaglia. Ma Kyiv aveva ricevuto informazioni dall’intelligence occidentale in questo senso e si era quindi ben preparata a difenderlo.
Gli scontri all’aeroporto sono durati per diverse ore e quando gli ucraini hanno alla fine dovuto ritirarsi di fronte alla supremazia nemica erano già stati in grado di distruggere le piste di atterraggio ritardando così in maniera critica il piano russo di utilizzare questo aeroporto come base operativa per l’assalto alla capitale.
Questo viene considerato oggi come il secondo momento chiave.
Altro grave errore dei russi nei primi fatali giorni di guerra è stato quello di non riuscire a rendere inoffensiva l’aeronautica e la difesa missilistica ucraina.
Nei giorni immediatamente precedenti l’attacco su larga scala, gli ucraini sono stati infatti in grado di nascondere buona parte dei loro mezzi aerei, in modo che, quando i russi hanno lanciato i primi bombardamenti il 24 febbraio, hanno in buona parte colpito basi ed aeroporti ormai vuoti.
A seguito della confusione iniziale, il comando ucraino è stato quindi in grado di riorganizzarsi e montare una strategia difensiva per rendere sempre più complicata l’avanzata russa, fino a fermarla nella zona di Bucha ed Irpin, due città ora divenute tragicamente famose per le stragi di civili avvenute durante l’occupazione.
L’immagine simbolo dello stallo dell’avanzata russa è stata sicuramente quella (ripresa dai satelliti di Maxar) della enorme colonna di 40km di camion e mezzi corazzati ferma per giorni sulla strada verso Kyiv, prima di essere parzialmente distrutta dagli attacchi di droni ucraini e, per la parte che è sopravvissuta, disperdersi nei campi attorno alla capitale.
Anche nella zona di Chernihiv la resistenza ucraina è stata molto più tenace di quanto Mosca si attendesse.
Come racconta il Washington Post, c’è stato anche un episodio in cui, pur di difendere una collina considerata di altissimo valore strategico, una unità di difensori ucraina si è praticamente fatta massacrare dall’artiglieria nemica, riuscendo lo stesso a mantenere la propria posizione.
Negli stessi giorni, i russi hanno cercato più volte di sfondare le difese ucraine sul fiume Irpin, ma ogni tentativo è stato respinto con enormi perdite da entrambe le parti.
Stando alla ricostruzione del Washington Post, il momento in cui Mosca è stata più vicina ad aprirsi la strada per Kyiv, è stato l’11 marzo, quando le truppe russe hanno attaccato con tutte le forze a propria disposizione il villaggio di Moschchun.
Anche in questo caso, però, seppure con estremo sacrificio, i difensori ucraini sono riusciti a tenere le proprie posizioni.
E quando tutto sembrava disperato, la mossa decisiva del comando ucraino è stata quella di distruggere le dighe sul fiume Irpin, permettendo così alle acque del fiume di inondare i campi e bloccare letteralmente i soldati russi nel fango.
Vista il fallimento della precedente strategia, a metà marzo i russi hanno tentato l’ultima disperata sortita, usando i carri armati. Ma il risultato è stato, se vogliamo, ancora più disastroso se precedente.
Immagini riprese da un drone di sorveglianza ucraino hanno mostrato decine di tank russi distrutti durante una imboscata delle forze ucraine, e sottoposti ad un bombardamento senza pietà dell’artiglieria ucraina. Intercettazioni telefoniche tra i soldati russi hanno poi confermato forti perdite.
Dopo questa débâcle i russi hanno praticamente rinunciato ad ulteriori attacchi verso la capitale. Anzi, da lì a poco avrebbero annunciato l’intenzione di ritirarsi dalle regioni di Kyiv, Chernihiv e Sumy: la prima di una serie di quelle che sono poi state definite, senza ironia, come “dimostrazioni di buona volontà” da parte di Mosca.
Ma l’amara verità è che i russi avevano fallito il loro principale obiettivo. Altrove, però, la guerra andava avanti.
Mariupol: l’eroica difesa di Azovstal
Mentre a nord l’avanzata verso Kyiv era stata costellata da decisioni tragicamente errate e fallimenti sul campo, nel sud dell’Ucraina i russi erano avanzati molto velocemente in due direzioni: dalla Crimea a sud e contemporaneamente dalla cosiddetta Repubblica popolare di Donetsk, a nord.
L’obiettivo principale dei russi in questa zona era sicuramente impadronirsi della città di Mariupol, il cui controllo avrebbe reso Mosca interamente dominatrice del Mar d’Azov. Mariupol era stata già temporaneamente occupata dalle milizie separatiste filorusse nel 2014, ma poi era stata riconquistata nel 2015 dalla controffensiva ucraina.
Ma soprattutto la città portuale era anche la sede del contestato Battaglione Azov, una milizia di volontari ucraini (poi integrata nell’esercito ucraino), nota per la presenza nei suoi ranghi di esponenti ultranazionalisti e persino apertamente nazisti.
Questa ultima cosa sarebbe stata ampiamente usata da Mosca per dipingere l’aggressione all’Ucraina del 2022 come una battaglia contro il nazismo ucraino in una specie di continuazione moderna della “grande guerra patriottrica”, così come i russi definiscono ancora oggi la Seconda guerra mondiale.
Di conseguenza, Mosca doveva a tutti i costi conquistare la città portuale per sconfiggere la sua nemesi.
I primi attacchi contro Mariupol risalgono al 25 febbraio, ma solo a partire dal 1° marzo la città è stata effettivamente circondata, segnandone il destino. Ciò nonostante, i difensori di Mariupol non avevano alcuna intenzione di arrendersi così velocemente.
Inizia da questo momento in poi un sanguinoso assedio, caratterizzato da episodi drammatici come quello del bombardamento del Teatro Drammatico di Mariupol avvenuto il 16 marzo 2022, quando una bomba lanciata da un aereo russo ha distrutto il Teatro usato come rifugio dai civili, causando, secondo alcune stime, oltre 600 morti.
Il 27 marzo i russi erano ormai già penetrati in città ed iniziato la loro lenta avanzata in ciò che ormai si stava sempre più trasformando in un ammasso di rovine. Il 2 aprile, i russi hanno quindi preso il controllo dell’edificio dei servizi di sicurezza ucraini (SBU) nel centro della città.
Il 12 aprile un gruppo di soldati della trentaseiesima Brigata della Marina ucraina, ormai circondato, è riuscito con una sortita ad abbandonare le proprie postazioni nell’impianto di acciaieria Illich nel nord della città ed unirsi con gli altri difensori di Mariupol del Battaglione Azov nell’ultima disperata sacca di resistenza nell’altro grande impianto industriale della città, Azovstal.
Quando la Russia ha chiesto il 18 aprile la resa ai difensori ucraini accerchiati ad Azovstal, la città era stata già distrutta per il 95%. Due giorni dopo Putin dal Cremlino ha annunciato prematuramente la fine delle operazioni militari in città, affermando che i restanti difensori di Mariupol non avrebbero avuto altre chance che arrendersi a causa dell’accerchiamento.
A quel punto anche l’ambizioso programma del comando ucraino di rifornire le truppe accerchiate via elicottero (di cui si sarebbe venuti a conoscenza sulla stampa mondiale solo dopo diverse settimane) era ormai fallito.
Sarebbe dovuto comunque passare un altro mese circa prima della resa finale (20 maggio), ma la difesa di Mariupol aveva già ottenuto due risultati fondamentali agli occhi degli ucraini: dimostrare che l’Ucraina avrebbe difeso fino all’ultimo il proprio territorio anche nelle condizioni più disperate, e soprattutto tenere impegnate unità russe che altrimenti avrebbero potuto essere usate altrove.
Con il senno di poi, questo ha certamente aiutato le truppe ucraine a resistere nel vicino Donbass, dove più forte è stato l’impatto dell’attacco russo.
Donbass: la potenza dell’artiglieria russa
Subito dopo la débâcle nel nord, Mosca si è affrettata a dichiarare che ben presto sarebbe iniziata una nuova fase della guerra, con l’intento di “liberare” tutto il territorio del Donbass ancora controllato dagli ucraini.
Dopo la prima guerra del Donbass del 2014-15, l’Ucraina era rimasta infatti in controllo di una parte rilevante della regione di Donetsk, nonché di una parte più residuale della regione di Luhansk, vale a dire le due zone che costituiscono quello che definiamo Donbass.
A differenza delle altre zone dell’Ucraina, i russi potevano contare in Donbass su un territorio a loro più favorevole, anche solo per la forte presenza di ucraini russofoni molti dei quali continuano ad avere apertamente simpatie per Mosca.
Ma anche Kyiv poteva contare su alcuni importanti punti di forza: anzitutto il fiume Seversky Donets, che divide in due la regione e rappresentava un formidabile ostacolo naturale per l’avanzata russa. Ed in secondo luogo le fortificazioni delle proprie postazioni, che Kyiv aveva costruito nel corso degli 8 anni passati dalla fine della prima guerra.
Per bypassare il Seversky Donets e prendere il controllo dell’intero Donbass, il comando russo aveva inizialmente ipotizzato un ambizioso attacco a tenaglia a nord dalla testa di ponte conquistata a marzo nella zona di Izyum ed a sud dalla zona occupata della regione di Zaporizhzya e dalla Repubblica di Donetsk.
In questo modo, la Russia sarebbe stata in grado di accerchiare l’intero gruppo di truppe ucraine nel Donbass. Ma tale piano non è mai concretamente partito.
Gli ucraini hanno infatti dimostrato di essere in grado efficacemente di contrastare qualsiasi avanzata russa dalla testa di ponte di Izyum ed anzi sono stati capaci di riconquistare diverse zone nelle immediate vicinanze della seconda città ucraina (Kharkiv) più a nord, mettendo così potenzialmente a repentaglio le linee di approvvigionamento russe verso Izyum.
Di conseguenza il comando russo ha cambiato strategia optando per una serie di attacchi più limitati che alla fine hanno comunque portato dei risultati nel saliente più orientale: grazie alla totale superiorità in termini di sistemi di artiglieria (in alcune zone il rapporto tra russi e ucraini era persino di 20 ad 1), le forze di Mosca alla fine sono riuscite a sfondare le fortificazioni ucraine nella zona di Popasna il 7 maggio.
Da qui hanno iniziato a muoversi sia verso est per cercare di accerchiare le unità ucraine presenti a Zolote (da dove gli ucraini si sono velocemente ritirati per evitare l’accerchiamento) sia verso nord in direzione di Lysychansk.
Contemporaneamente, il grosso delle unità russe ha iniziato ad attaccare frontalmente da est la città gemella di Lysychansk, Severodonetsk, divisa dalla prima solo dal fiume Seversky Donets.
Il piano avrebbe dovuto concludersi con un attacco a tenaglia da nord, attraversando il Seversky Donets nella zona di Bilohorivka, ma questo tentativo si è trasformato in un massacro per le forze russe che ci hanno provato inutilmente tra l’8 ed il 12 maggio solo per finire sotto i colpi dell’artiglieria ucraina.
La débâcle di Bilohorivka non ha però impedito il compimento del piano russo, rallentandone solo i tempi: dopo una sanguinosa battaglia urbana durata diverse settimane, il 25 giugno 2022, gli ucraini si sono dovuti ritirare anche da Severodonetsk.
In questo modo hanno dovuto abbandonare l’ultima testa di ponte che avevano sulla riva orientale del Seversky Donets (l’altra testa di ponte, quella di Lyman e Sviatohirsk era già caduta nelle mani russe nelle settimane precedenti).
Questo è stato il momento probabilmente più difficile per gli ucraini. Ad inizio giugno lo stesso presidente Zelensky ha dovuto ammettere che gli ucraini stavano perdendo circa 100 soldati al giorno in battaglia, e dopo qualche giorno il suo consigliere Mykhaylo Podolyak ha fornito una stima ancora peggiore: 200 morti al giorno.
A questo ritmo le difese ucraine in Donbass erano seriamente a rischio di collasso ed il comando ucraino si trovava nella difficile situazione di dover decidere se abbandonare le proprie postazioni a Lysychansk e ritirarsi verso altre linee fortificate più facilmente difendibili oppure rischiare una seconda Mariupol, visto il serio rischio di accerchiamento.
Alla fine, il 3 luglio gli ucraini hanno deciso di completare il ritiro delle proprie forze dalla città di Lysychansk che era ormai quasi assediata. I russi sono riusciti così ad ottenere il loro primo concreto successo tattico della guerra, conquistando praticamente l’intera regione di Luhansk.
Di fronte a loro si apriva ora la regione di Donetsk, e soprattutto le restanti città del Donbass ancora controllate dagli ucraini: Bakhmut, Seversk, Slayvansk e Kramatorsk.
Nulla sembrava ormai poter fermare l’avanzata russa a rullo compressore. Ma gli ucraini erano stati in grado di ritirare le proprie truppe senza farsi accerchiare, e da lì a poco le cose sarebbero cambiate radicalmente in poco tempo ancora una volta.
Le armi occidentali e l’ingresso degli HIMARS nel campo di battaglia
Mentre le postazioni ucraine in Donbass erano soggette senza pietà al fuoco di artiglieria russo, il comando ucraino aveva lanciato l’allarme: senza una adeguata fornitura di armi di artiglieria da parte occidentale, il fronte ucraino sarebbe collassato velocemente e la guerra sarebbe stata persa, nonostante tutto l’eroismo mostrato dagli ucraini fino a quel momento.
Di fronte alla superiorità russa in termini di artiglieria su uno spazio così ristretto come nel Donbass, occorreva qualcosa che riequilibrasse sostanzialmente le forze sul campo. Gli unici che potevano aiutare gli ucraini a tale scopo erano i Paesi occidentali.
Se, inizialmente, le forniture di armi erano state molto limitate per la paura che l’Ucraina sarebbe velocemente caduta nelle mani russe, la capacità di resistenza ucraina ed il rischio che il fronte collassasse comunque per la pura forza bruta dei russi, aveva finalmente convinto gli occidentali a muoversi.
Gli Stati Uniti (seguiti dagli altri Paesi occidentali) sono quindi intervenuti annunciando prima una serie di pacchetti di aiuti militari, e quindi facendo approvare dal Congresso un finanziamento di 40 miliardi di dollari, così come l’estensione (per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale) del programma lend-lease per aiutare le Forze Armate ucraine a resistere all’invasione russa.
Inizialmente le forniture americane hanno riguardato principalmente obici M777 e munizioni di artiglieria calibro 155mm. Ma neppure questi nuovi mezzi di artiglieria, sebbene abbiano certamente aiutato sul campo di battaglia, si sono dimostrati in grado di modificare radicalmente la situazione a favore degli ucraini.
Molto di più è cambiato quando invece gli ucraini hanno iniziato ad utilizzare i sistemi di lanciarazzo multipli M142 High Mobility Artillery Rocket System (HIMARS) forniti dagli americani con missili GMLRS con gittata fino ad 80 km di distanza e guida satellitare.
Per spiegare il motivo per cui l’entrata in campo degli HIMARS è stata fondamentale, occorre fare un passo indietro e parlare della catena logistica che ha permesso ai russi di ottenere un vantaggio di artiglieria così imponente nel Donbass.
Le munizioni di artiglieria venivano spedite al fronte attraverso la ferrovia partendo dal territorio russo o controllato dai russi, fino a raggiungere alcuni depositi di munizioni. Da qui venivano, più volte al giorno, caricate su camion ed inviate alle unità sul fronte, che le usavano per bombardare costantemente le postazioni ucraine.
Per poter garantire la continua fornitura di munizioni di artiglieria necessaria per questo tipo di operazioni, era fondamentale che i depositi di munizioni suddetti si trovassero quanto più vicino al fronte, ed allo stesso tempo oltre il raggio operativo dell’artiglieria in uso agli ucraini fino a quel momento.
Un deposito di munizioni distante circa 50km dalla linea del fronte avrebbe, perciò, consentito sia forniture continue alle truppe al fronte (almeno due volte al giorno tenuto conto anche delle tempistiche di carico, scarico e trasporto tutte effettuate a mano), che tenuto al sicuro tali obiettivi da possibili contrattacchi ucraini.
L’entrata in campo degli HIMARS, che hanno distrutto senza pietà i depositi di munizioni russe, ha cambiato completamente le carte in tavola.
Anzitutto ha permesso agli ucraini di distruggere enormi quantità di munizioni che si erano accumulate vicino al fronte pronte ad essere usate in qualsiasi momento. Ma soprattutto ha costretto i russi ad allontanare i depositi di munizioni a distanze maggiori di 80km, riducendo quindi la capacità logistica di approvvigionamento delle truppe al fronte.
Tutto ciò, unito al logoramento delle truppe russe dopo mesi di dura guerra, ha portato sostanzialmente al blocco dell’offensiva russa in Donbass. Dalla conquista di Lysychansk in poi, le avanzate russe si sono infatti contate sul palmo della mano in termini di metri ogni giorno.
A ciò va aggiunto, inoltre, il rischio di una controffensiva ucraina nel sud dell’Ucraina che ha costretto i russi a spostare una parte delle unità nella lontana regione di Kherson.
L’uso degli HIMARS ha infatti avuto un altro impatto fondamentale: ha permesso agli ucraini di mettere fuori uso ponti stradali e ferroviari e punti di attraversamento delle truppe russe sul fiume Dnjepr.
Ciò ha messo potenzialmente a rischio di accerchiamento le truppe russe che si trovano nella regione di Kherson, l’unica testa di ponte che i russi sono finora riusciti ad ottenere sulla riva occidentale del fiume che divide a metà l’Ucraina.
Kherson era stata facilmente conquistata nei primi giorni di guerra, ma in maniera simile a quanto accaduto a nord, quella che avrebbe dovuto essere una avanzata trionfale su Odesa, è stata poi bloccata nelle settimane seguenti dagli ucraini nelle vicinanze di Mykolaiv, che da allora è diventata una città martire sottoposta ad ondate di bombardamenti da parte russa.
Nel mese di luglio gli ucraini hanno iniziato un primo contrattacco nella regione di Kherson limitato ad alcuni insediamenti vicino al fronte.
Tanto è bastato però per far scattare l’allarme a Mosca che ha deciso di inviare decine di battaglioni per rafforzare le truppe russe nella regione. Tutto ciò ha, ovviamente, indebolito l’attacco russo nel Donbass, che, come abbiamo visto, si è praticamente fermato.
Se i russi continuassero a tenere questo passo, ci vorrebbero dunque diversi anni anche solo per raggiungere l’obiettivo minimo dichiarato: la conquista dell’intero Donbass.
Il futuro prossimo: la guerra di logoramento
Arriviamo così ai nostri giorni. Gli ucraini continuano senza sosta gli attacchi on HIMARS prendendo di mira particolarmente i ponti sul Dnjepr, in particolare il ponte Antonovsky e quello della diga di Nova Khakovka.
Le immagini satellitari più recenti mostrano che questi due ponti ormai sono diventati impraticabili per il traffico di autoveicoli, in particolare militari.
Tutto ciò rende molto complicata la posizione russa nella regione di Kherson. Eppure, non sembra che gli ucraini abbiano al momento le forze necessarie per poter approfittare di questa situazione.
In questa situazione di stallo ci sono anche delle situazioni ad alto rischio, come quella che si è venuta a sviluppare nella vicina regione di Zaporizhzhya dove i bombardamenti nelle vicinanze della centrale nucleare (la più grande d’Europa) hanno fatto tornare alla mente l’orrore del disastro di Chernobyl.
Ma ciò che ha sorpreso di più gli osservatori internazionali, sono stati i recenti attacchi ucraini nella penisola di Crimea, che hanno portato alla distruzione di una base aerea e di almeno metà della flotta aerea della Marina russa del Mar Nero.
Ancora oggi non è chiaro come siano avvenuti questi attacchi, visto che ufficialmente l’Ucraina non è dotata delle armi in grado di colpire così tanto in profondità dietro le linee nemiche. È possibile, dunque, che si sia trattato di una operazione clandestina delle forze speciali ucraine.
Sta di fatto che, come afferma un documentario di prossima uscita, gli ucraini hanno sicuramente dimostrato di aver resistito “oltre ogni previsione”.
Ma in quella che sta diventando sempre di più una guerra di logoramento visto lo stallo generalizzato, diventa sempre più evidente il vero tallone di Achille di Kyiv: la dipendenza dalle forniture di armi, ed in generale dall’appoggio dei Paesi occidentali.
Con la crisi energetica ed economica che peggiora ogni giorno che passa a causa anche dei tagli russi delle forniture di gas, il numero di cittadini europei ed americani disposti a tutto per aiutare l’Ucraina a vincere la guerra si riduce sempre di più.
Eppure, è proprio questo malessere che rischia di consentire alla Russia di ottenere una insperata vittoria che non è stata e non sarebbe più in grado di ottenere sul campo.
Vorrei concludere, quindi, citando e condividendo le parole della Prima Ministra estone, Kaja Kallas: “Se noi paghiamo in euro, gli ucraini pagano in vite umane. E per quanto possa costare il gas, la libertà non ha prezzo”.