Cominciamo con un dato incontrovertibile: Donald Trump ha vinto nettamente le elezioni presidenziali USA 2024, conquistando un’ampia maggioranza tra i grandi elettori ed andando oltre le aspettative della vigilia per quanto concerne il voto popolare. Nei cosiddetti swing states, decisivi ai fini dell’assegnazione della vittoria, il candidato repubblicano si avvia verso uno storico risultato, superando la rivale Kamala Harris di oltre tre punti in North Carolina, di due in Georgia, Pennsylvania e Michigan, e portando a casa anche Nevada, Arizona e Wisconsin. È un trionfo che mortifica gli inviti alla cautela dei giorni precedenti e apparentemente smentisce la quasi totalità dei sondaggi elettorali della vigilia, che parlavano di contesa aperta.
Si sta discutendo molto in queste ore sulle ragioni politiche che hanno pesato sul risultato, in un dibattito che durerà a lungo e che investe anche il futuro della più potente democrazia occidentale. Su un piano più concreto, la sensazione è che si sia verificata una convergenza di fattori del tutto peculiare e che il candidato repubblicano sia riuscito a incidere in differenti ambiti e situazioni. Ogni tessera del puzzle sembra essersi incastrata in modo perfetto: la campagna di Donald Trump ha coperto tutte le basi e quella di Harris non è riuscita a far breccia in nessun “blocco” di elettorato.
Chi ha votato per Donald Trump alle elezioni USA 2024
Gli exit poll ci danno una mano per capire come si è diviso l'elettorato per i due candidati.
La scelta di Harris, le accuse di molestie, il sessismo intrinseco nella comunicazione di Trump sembravano poter trasformare questa elezione anche in una straordinaria occasione di mobilitazione dell’elettorato femminile. A leggere i dati, ciò non sembrerebbe essere avvenuto. La vicepresidente in carica ha raccolto “solo” il 54% del voto femminile, un risultato simile a quello ottenuto da Joe Biden e inferiore a quello di Hillary Clinton. Trump è andato bene tra le donne bianche, in particolare con quelle con medio-basso livello di istruzione che vivono nelle zone rurali o nei sobborghi delle città.
È l’enigma più grande di questa consultazione, quello per cui possiamo solo abbozzare delle ipotesi, senza alcuna pretesa che siano sufficienti a risolverlo. Probabilmente una parte dell’elettorato femminile ha avuto una percezione diversa della campagna e dello “storico” di Trump sul tema (ehm, le decine di accuse di molestie, il linguaggio sessista e le amicizie non proprio edificanti), che magari la nostra prospettiva, necessariamente condizionata dalla copertura mediatica, non ci aiuta a cogliere in pieno. Così come non siamo in grado di valutare quanto abbia pesato la radicalizzazione dello scontro sulle questioni di genere sull’elettorato femminile di vedute conservatrici.
Più banalmente, può darsi che ancora una volta a determinare il voto, anche delle donne, siano state altre valutazioni, legate principalmente ai temi dell’economia e della sicurezza.
Come hanno votato bianchi, latini e neri
Come previsto alla vigilia, Kamala Harris ha raccolto un’ampia maggioranza tra gli elettori neri, l’86% circa, ma non è riuscita a fare la differenza in alcune decisive contee di Pennsylvania e Wisconsin. Con i voti dei sobborghi delle grandi città, ma su questo torneremo più avanti, i democratici si aspettavano di colmare il gap delle zone rurali, tradizionalmente favorevoli ai repubblicani. Così non è avvenuto anche per il clamoroso risultato di Donald Trump tra gli elettori latini, in particolare maschi. Un elettorato che già da qualche anno sembrava essersi spostato su posizioni conservatrici e che ha premiato (inaspettatamente?) il tycoon newyorchese, consentendogli di andare oltre la doppia cifra di miglioramento rispetto alla sconfitta del 2020. Particolarmente significativi, in tal senso, sono i risultati in alcune contee della Florida, della California e del Texas a maggioranza latina, soprattutto se confrontati con le elezioni del 2020.
Per la verità, più di un analista aveva notato come lo spostamento a destra dell’elettorato latino fosse un fenomeno già in corso da tempo. Le motivazioni, anche in questo caso, sono piuttosto complesse, ma meritano di essere sottolineati due aspetti: spesso la retorica anti-immigrazione fa presa anche su chi quel percorso lo ha già fatto, ne ha già affrontato gli ostacoli e ora, più che sentirsi solidale, vede negli “irregolari” una minaccia a una posizione faticosamente raggiunta; inoltre, gran parte della popolazione latina occupa quella fascia di reddito medio-bassa che ha più subito gli effetti dell’inflazione e che più teme per le oscillazioni dei cicli economici, manna per la propaganda trumpiana.
Poco rilevante per il risultato finale, ma ugualmente significativa, è l'avanzata di Trump anche nella comunità asiatica e nelle altre minoranze.
Il profilo dell'elettore di Donald Trump
Come anticipavamo, appare davvero centrale il ruolo della classe media nella vittoria elettorale dei repubblicani. Donald Trump ha guadagnato ulteriormente terreno tra l’elettorato a medio e basso reddito (generalmente chi guadagna meno di 50mila dollari l’anno o tra 50k e 100k), sfondando nei centri rurali e tenendo botta nei sobborghi delle grandi città, tendenzialmente favorevoli ai democratici. Incrementi anche piccoli, ma che sommati hanno reso impossibile la rincorsa di Kamala Harris, che ha “sotto-performato” nelle contee che avevano dato linfa alla vittoria di Biden negli swing states. Il New York Times ha realizzato una mappa da cui si evince come l’ex presidente abbia guadagnato terreno praticamente ovunque, riducendo il distacco laddove era indietro e ampliando la forbice a suo favore nel resto del Paese.
Ha individuato nel ceto medio impoverito, lontano dai grandi centri urbani, il target principale della sua campagna, facendo la differenza sia nella cintura blu (Michigan, Wisconsin, Ohio e Pennsylvania) che in altri Stati in bilico, come Nevada, Arizona e North Carolina. E ha spinto molto sull’elettorato “rurale”, che oggi la CNN definisce “una forza ben più potente di quanto si sia capito finora”. Un gruppo eterogeneo ma accomunato da un sostanziale conservatorismo (famiglie con più figli, tendenzialmente cattoliche o protestanti, protezioniste e anti – immigrazione), che rappresenta da sempre la spina dorsale dei repubblicani. Per Trump, semplicemente la chiave per il ritorno alla Casa Bianca.
Le proporzioni di una vittoria totale
Il punto su cui vale la pena insistere è questo, dunque: nella sostanza, Trump ha vinto ovunque. Ha fatto meglio della volta scorsa in praticamente tutti i settori di elettorato e in quasi ogni zona del Paese (sono circa 2400 le contee in cui ha fatto meglio, solo 230 quelle in cui è andato peggio). Ha colmato lacune quasi insormontabili, avanzando anche tra i giovani e le persone con alti livelli di istruzione. Guardando ai singoli Stati la situazione per i democratici è desolante e deprimente anche in chiave futura. Harris ha vinto male anche nelle sue roccaforti come New York, Minnesota e Rhode Island, al punto che stati come il New Jersey o la Virginia sembrano poter diventare “in bilico” nell’immediato futuro. I democratici devono prendere atto non solo che l’Ohio e la Florida hanno smesso definitivamente di essere contenibili, ma che occorre fare molta attenzione anche in zone considerate di incrollabile fede progressista.
Il clamoroso risultato del voto popolare e, lo ripetiamo, l’avanzamento diffuso della destra, sono indice di un cambiamento profondo nell’elettorato (su cui gli analisti avranno modo di discutere a lungo), ma anche di una campagna elettorale che è stata dominata dalla figura di Donald Trump. L’uscita di scena di Joe Biden, l’attentato da cui è miracolosamente uscito indenne, le vicende giudiziarie (è il primo presidente della storia che viene eletto con una condanna e con decine di capi di imputazione ancora pendenti), la convergenza su di lui di alcune figure più che controverse (tra cui ovviamente spicca Elon Musk), le difficoltà dei democratici di costruire per tempo un’alternativa sensata: tutto ha contribuito a trasformare l’elezione in un referendum su Trump. Ha dettato l’agenda, ha imposto i ritmi del confronto, ha polarizzato su temi e personaggi, è riuscito ancora una volta a usare a proprio vantaggio il binomio popolo – élite, apparendo (incredibilmente) credibile.
Come spiegava anni addietro Naomi Klein, ancora una volta ha usato "un linguaggio incendiario per infiammare la sua base e rendere chiaro chi è il nemico", costruendo una "narrazione di ‘noi contro loro’, dividendo il paese in fazioni opposte e facendo leva su paure e risentimenti profondi". Ha amplificato le divisioni esattamente per "creare un clima di paura e caos", riuscendo a mobilitare e cementare la sua base "attraverso un senso di crisi permanente, offrendo sé stesso come l'unica soluzione".
Ha funzionato, anche perché di fronte c'era un partito che non è più la soluzione a nulla, né riesce più a rappresentare i suoi stessi elettori. Che ha pensato di trincerarsi dietro le statistiche economiche, senza una seria autocritica sui livelli di disuguaglianza e sulla distribuzione asimmetrica dei benefici della crescita economica. Che non può respingere l'accusa di essere elitario perché essenzialmente lo è. E che si è trovato in una fase di totale smarrimento e confusione, fino ad arrivare a un passo dal collasso nei giorni dell'affaire Biden.
Kamala Harris, evidentemente, ha fatto quanto le era possibile. Raccogliendo i cocci del partito e provando a ribaltare l'inerzia di una campagna elettorale che sembrava segnata. Ha creato l'illusione di poter mobilitare l'elettorato contro il "mostro Trump", ma non è andata oltre qualche scintilla. Probabilmente non poteva fare diversamente, considerando che l'avversario era oggettivamente quello: un politico che non era riuscito a condannare l'attacco eversivo a Capitol Hill, che aveva minacciato di non riconoscere l'esito delle elezioni, un uomo capace di fare continuamente ricorso a bufale e bugie, fomentatore di rabbia sociale e animatore di linguaggi d'odio e di discriminazione. Fatto sta che non è risultata credibile.
Dati alla mano, la mobilitazione che le serviva non c'è stata e probabilmente la colpa è da ricercarsi anche nei limiti della costruzione della sua piattaforma ideologico-programmatica. Troppo simile a Trump in campi in cui non era competitiva, troppo timida su questioni fondamentali per un elettorato "progressista-di sinistra" (il riferimento è ovviamente all'immigrazione e alla politica estera, con le tante ambiguità su Gaza che pure hanno pesato), troppo decisa su temi che invece spaventano l'elettorato tradizionalista.