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Come funziona la nuova legge spagnola sulla violenza sessuale e perché servirebbe anche in Italia

Il Senato approverà martedì prossimo in Spagna una nuova legge sulla violenza sessuale: la vittima non dovrà più provare di aver subito violenza. Il nome della norma sarà: “Solo sì significa sì”.
A cura di Jennifer Guerra
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“Solo sì significa sì”. È questo il nome della nuova legge sulla violenza sessuale che il Senato approverà martedì prossimo in Spagna, dopo lunghe discussioni. La nuova legge si baserà sul consenso affermativo, per cui la vittima non dovrà più provare di aver subito violenza, ma sarà solo l’esplicita presenza del suo consenso a dirimere lo stupro da un rapporto consensuale. Come è scritto nel testo della legge, “il consenso si intende solo quando è stato liberamente espresso, attraverso atti che, date le circostanze del caso, esprimano chiaramente la volontà della persona”. Inoltre, “silenzio o passività non significano necessariamente consenso”.

La legge arriva dopo una controversa sentenza per cinque giovani uomini (tra cui un poliziotto) coinvolti in uno stupro di gruppo a Pamplona, durante i festeggiamenti di San Fermín. Ai cinque, noti come la banda della “manada”, non era stato riconosciuto il reato di aggressione sessuale perché la vittima non avrebbe opposto resistenza. Come se non bastasse, la Corte provinciale di Navarra ne ordinò la libertà provvisoria fino al verdetto finale, con un riscatto di soli 6000 euro. Solo dopo numerose proteste da parte della popolazione e di diversi esponenti politici, la Corte Suprema li condannò per aggressione sessuale a 15 anni di carcere, poco prima che due di loro fuggissero all’estero.

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La nuova norma può essere considerata una vera e propria riforma sulla violenza sessuale: oltre all’introduzione del consenso affermativo, ha anche eliminato la precedente distinzione tra abuso sessuale, considerato un reato meno grave, e aggressione sessuale. Ora per la giustizia spagnola qualsiasi atto sessuale senza consenso si può configurare come violenza.

Sono inoltre previste delle aggravanti nel caso in cui la vittima sia stata drogata o fatta ubriacare, o se è una partner o ex partner. Tra le novità c’è anche la penalizzazione del catcalling e della condivisione non consensuale di immagini intime e l’eliminazione di conseguenze legali per le migranti irregolari che denunciano una violenza sessuale, cosa che già avviene nel caso di violenza domestica.

Secondo Amnesty International, solo 12 Paesi europei definiscono lo stupro come “sesso senza consenso”. Tra di essi non c’è l’Italia, dove la violenza sessuale è definita nel Codice penale come la costrizione “a compiere o subire atti sessuali […] con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità”.

Nella pratica, questo vuol dire che è la vittima a dover dimostrare ai giudici di aver subito uno stupro, spesso subendo una sorta di indagine sulla sua vita, le sue frequentazioni e le sue abitudini sessuali. Non sono pochi i casi in cui un imputato è stato assolto dall’accusa di stupro anche a causa della reputazione della donna.

Lo scorso anno, ad esempio, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per aver utilizzato nella sentenza del caso di Fortezza da Basso un “linguaggio colpevolizzante e moraleggiante” nei confronti della vittima, a cui sono state rivolte domande “personali riguardanti la sua vita familiare, il suo orientamento sessuale e le sue scelte intime, talvolta estranee ai fatti”.

La vicenda di Fortezza da Basso ricorda quella di Pamplona: si è trattato in entrambi i casi di accuse di violenze di gruppo avvenute durante una festa, finite con un giudizio sugli imputati condizionato dal comportamento della vittima.

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Nel caso italiano, i giudici avevano fatto appello al comportamento disinibito della ragazza, al suo orientamento bisessuale e al fatto che non avesse ostacolato il rapporto sessuale. In quello spagnolo, il giudizio più lieve è stato giustificato con il fatto che la ragazza fosse rimasta immobile e in silenzio durante l’aggressione. La decisione dei giudici spagnoli ha scatenato un enorme dibattito nel Paese, favorito dalle manifestazioni delle femministe al grido dello slogan “Yo si te creo”, io sì ti credo.

La politica ha ascoltato le richieste dei movimenti delle donne e delle associazioni di superare l’antiquata legge sulla violenza sessuale, arrivando al testo “Solo sì significa sì” che è stato approvato da tutti i partiti con l’eccezione del partito di estrema destra Vox, da anni impegnato in una battaglia contro le politiche per la parità di genere. Le leggi sul consenso affermativo non sono infallibili e presentano alcune criticità, come il rischio involontario di caricare sulla donna la responsabilità di non aver esplicitato in maniera abbastanza chiara il proprio consenso.

Tuttavia, le leggi “classiche” sulla violenza sessuale hanno il difetto ancora più grande di costringere la vittima a raccogliere e portare le prove di una violenza subita, cosa che non accade per nessun altro reato, e di spingere i giudici a scavare nel suo passato per equiparare una vita sessuale libera a una disponibilità incondizionata.

Ma la cosa più importante di questa vicenda è che la legge spagnola è il risultato di una lunga conversazione, non priva di difficoltà, sulla pervasività della violenza di genere e della cultura dello stupro. Iniziato dai movimenti, questo dialogo ha poi coinvolto le istituzioni, che non hanno potuto ignorare le folle oceaniche che sono scese in piazza per chiedere una legge più giusta.

In Italia tutto questo non accade. Non perché manchi un movimento forte come quello spagnolo, ma perché non abbiamo ancora capito come affrontare le accuse di violenza di genere. In una società imbevuta di stereotipi sessisti, non riusciamo a riconoscere il carattere sistemico della violenza e ci limitiamo a passare da una notizia all’altra, in attesa del prossimo trend topic del giorno. Dal caso degli Alpini di Rimini, al caso Genovese, passando per il caso Grillo, l’unica cosa che viene fatta è difendere la reputazione degli accusati. È vero, la giustizia ha i suoi tempi e bisogna aspettare le condanne definitive, ma questo non ci impedisce di pronunciare quel “io sì ti credo” che è diventato lo slogan del femminismo spagnolo.

Senza questa solidarietà, senza un cambio di prospettiva che ponga al centro di ogni vicenda di stupro chi l’ha subito, quella giustizia in cui riponiamo così tanta fiducia continuerà a processare la parte sbagliata.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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