Come finirà il regime di Putin in Russia secondo il premio Nobel Orlov
"Non importa se i risultati sono irraggiungibili, bisogna essere ottimisti e combattere", dice Oleg Orlov, uno dei più rispettati attivisti russi per i diritti umani. Ha iniziato come dissidente durante l’era sovietica e dissidente è ritornato: l’attivismo è diventato impossibile, con l’involuzione del regime di Putin e la repressione.
Memorial, l’Ong per i diritti umani fondata in Russia negli anni del crepuscolo comunista e che ha indagato i crimini commessi da Stalin e dai suoi successori, è stata dichiarata “agente straniero” e poi ufficialmente dissolta dal Cremlino subito dopo l’invasione dell’Ucraina. Ma continua a lavorare sottobanco.
Orlov ha criticato duramente l’aggressione al Paese vicino e la guerra al dissenso in corso in Russia. Come migliaia di suoi concittadini, è ora perseguito sulla base delle nuove leggi con cui il governo si è attrezzato per stroncare ogni opposizione alla sua “operazione militare speciale” e alla sua politica. È accusato di aver violato l’articolo 280.3 del codice penale russo. Il reato consiste nell’intraprendere “azioni pubbliche volte a screditare le forze armate utilizzate al fine di proteggere l’interesse della Russia e dei suoi cittadini al mantenimento della pace e della sicurezza”.
Eppure, nota Orlov, la guerra in Ucraina è “senz’altro contraria” all’interesse della Russia e dei suoi cittadini. Per non parlare poi delle parole dell’articolo sul “preservare la pace e la sicurezza internazionali”. Ma non c’è da stupirsi. La Russia di Putin è diventato il Paese di Orwell. Pace vuol dire guerra. E anche l’articolo 29 della sua Costituzione, che prevede la libertà di parola, è all’insegna del “doublespeak” orwelliano: afferma una cosa per significare il contrario. Esprimere il proprio pensiero oggi in Russia di fatto è proibito.
Raggiungiamo Oleg Orlov in videoconferenza nella sua casa in un tranquillo quartiere residenziale moscovita. Ci rivolgiamo a lui con nome e patronimico, in segno di rispetto secondo l’usanza russa.
Oleg Petrovich, l’accusa contro di lei è paradossale, visto che è stata la Russia a invadere l’Ucraina. Ma poteva aspettarsela. Sapeva di esser nel mirino. Ora rischia fino a tre anni di prigione. E solo lo 0,3% degli imputati viene assolto, nei tribunali russi. Perché è rimasto a Mosca?
"Per due motivi. Il primo ha a che fare direttamente col mio lavoro: sono responsabile di un dipartimento di Memorial di cui fanno parte soprattutto persone che lavorano qui. Non sarebbe bello se gestissi i miei colleghi rimasti in Russia standomene in un posto più sicuro. Altri esponenti di Memorial, che si occupano di diritti umani, possono benissimo lavorare dall’estero. Il mio amico Sergei Davidis, per esempio, ha potuto organizzare da fuori un programma per aiutare i prigionieri politici, e funziona. Ma nel mio caso al momento non vedo come potrei andarmene e continuare con la mia attività".
E questo è un motivo "professionale", per così dire. Secondo motivo?
"Credo che dalla Russia la mia voce si senta più forte e suoni in modo migliore. Sia in Russia sia all’estero: stando qui guadagno in autorevolezza. È importante, per quello che faccio".
La repressione si fa sempre più drastica, le pene per i dissidenti sono molto severe. Si è tornati ai tempi dell’Urss?
"Ovviamente ci sono parallelismi: in pratica è tornata l’era del totalitarismo sovietico. Il numero dei prigionieri politici oggi è addirittura superiore rispetto a quello dei tempi di Brezhnev".
Quanti sono i prigionieri politici?
"Secondo l’elenco di Memorial, sono 564. Ma si tratta di una stima conservativa. Impossibile avere tutti i dati su tutta la Russia. È solo la punta dell’iceberg. L’organizzazione Ovd-Info, specializzata nel monitorare le persecuzioni politiche, ha inoltre accertato poco meno di 20mila detenzioni temporanee e 584 casi penali ancora aperti — tra i quali il mio — per azioni di protesta contro la guerra".
Insomma, peggio che ai tempi di Brezhnev…
"Anche perché le condanne sono più crudeli di allora. Si è ritirato fuori il reato di alto tradimento, per cui si possono facilmente prendere 25 anni di galera, come nel caso del politico di opposizione Vladimir Kara-Murza (il codice penale lascia ampia discrezionalità interpretativa al giudice, che può anche considerare “alto tradimento” qualsiasi collaborazione o contatto con entità straniere, ndr). C’è poi l’articolo che punisce le ‘informazioni consapevolmente false’ sulle forze armate: per poche parole si può esser condannati fino a dieci anni (è il caso, tra gli altri, dell’attivista Dmitri Ivanov e dei politici Ilya Yashin e Alexei Gorinov — da cui l’articolo è stato soprannominato ’Gorinovskaya’, ndr). E nella ‘cassetta degli attrezzi’ predisposta dal regime per stroncare ogni dissenso va annoverato anche l’articolo che prevede una pesante responsabilità penale per chi organizza un’organizzazione ‘estremista’, dove per ‘estremista’ il giudice può intendere qualsiasi cosa non piaccia al governo".
Con tutta questa repressione, esiste ancora una società civile in Russia?
"Esiste. E continua a lavorare. In condizioni molto difficili di semi-clandestinità. È una società civile ‘underground’. Una parte significativa di essa ha lasciato la Russia, ma siamo continuamente in contatto: lavoriamo insieme ogni giorno, in videoconferenza. Riunioni su riunioni".
E portano a qualcosa, le vostre riunioni? In particolare: riuscite a sensibilizzare l’opinione pubblica all’estero? Forse — come successe per la dissidenza sovietica — il sostegno internazionale è importante. O no?
"È molto importante. Può portare a scambi di prigionieri. I nostri ‘politici’ contro le spie russe detenute all’estero. È una cosa a cui puntiamo e che può esser influenzata dalle pressioni dell’opinione pubblica internazionale. Come avveniva in passato. E poi, è importante l’assistenza finanziaria. Il 12 giugno scorso i media russi ‘emigrati’ all’estero hanno organizzato una maratona a sostegno dei prigionieri di coscienza in Russia e hanno raccolto diversi milioni di rubli. Serviranno per aiutare le famiglie, per le spese degli avvocati — che devono fare lunghi viaggi per visitare i loro assistiti in carceri spesso lontane migliaia di chilometri — e per assumerne di nuovi, di avvocati".
Scambi di prigionieri, campagne internazionali a favore dei detenuti politici: cose già viste tanto tempo fa. Ma è possibile che la Storia della Russia abbia sempre un andamento circolare? Che non si riesca mai a spezzare il cerchio della violenza dello Stato, dei totalitarismi più o meno ibridi che tornano a infierire — magari dopo periodi di torbidi (nella domanda utilizziamo il termine russo ‘smuta’, che indica il dissesto precedente all’ascesa al trono di casa Romanov, ndr) come quello degli anni ’90?
"È una realtà su cui riflettere. E, come attivisti per una Russia migliore, lo stiamo facendo. Secondo me, il problema principale è che la Russia è stata un impero e non riesce ad abbandonare la sua eredità imperiale. La ‘coscienza imperiale’ risiede nella testa della maggior parte dei russi. Me compreso. Per questo non riusciamo a rompere il cerchio della violenza e dell’autoritarismo statale".
Lei però ci prova da una vita a rompere il cerchio dell’autoritarismo statale russo. Nell’agosto del 1991, per esempio, era a difendere la ‘Casa Bianca’ di Mosca contro i golpisti del Kgb che volevano rovesciare Gorbachev e far tornare il Paese al totalitarismo. Oggi che pensa? Il Kgb alla fine ha vinto?
"Purtroppo è così: trent’anni dopo il golpe e il fallimento della democrazia, i ‘putchisti’ del Kgb hanno vinto".
Alla prima udienza del processo che la vede imputato, lei è entrato in aula con in mano un libro del politologo Alexander Baunov. Titolo ‘La fine del regime’. Il libro non parla della Russia ma di altri regimi. Interessante però che in Russia vada a ruba e che lei se lo porti in un tribunale di Mosca. Allora: come finirà il regime? Quello di Putin.
"Si prospettano diversi scenari. Il più rapido e forse il migliore: la guerra in Ucraina si mette al peggio, Putin lascia il potere, o perché lo trasferisce più o meno volontariamente a un successore o perché viene defenestrato (non in senso letterale, intende Orlov ndr). In questo caso tutto avverrebbe molto velocemente — proprio come descrive Baunov. Dalle élites al potere emergerebbero riformatori che inizierebbero immediatamente a cambiare la Russia in senso democratico. Un po’ come successe con Khrushchev dopo la morte di Stalin, fatti i dovuti distinguo. Se succedesse questo, i russi dell’emigrazione e la società civile rimasta in patria avrebbero un ruolo cruciale nel vigilare sulle riforme impedendo che siano solo cosmetiche".
E un altro scenario per la fine del regime, quale potrebbe essere?
"Il peggiore sarebbe quello in cui, in seguito alla guerra, il regime risulti incapacitato ma resti simile a se stesso per lunghi anni, nel corso dei quali la situazione in Russia diventerebbe putrescente. Il Paese resterebbe indietro rispetto al resto del mondo. E il tutto finirebbe con un’implosione che distruggerebbe la Russia e porterebbe all’anarchia, oltre che al crollo del regime."
Tronando a lei: ma vale la pena combattere e andare in galera per risultati forse irraggiungibili? Al contrario dei politici, i dissidenti devono lottare anche senza speranza? L’etica oltrepassa la politica?
"Ah, certamente sì. Serve ottimismo, anche senza speranza (Oleg Orlov si schernisce e sorride, ndr)".