Si fa un gran parlare, in Italia e nel mondo, di come far finire la guerra tra Russia e Ucraina, di dove finisca il pacifismo e cominci il collaborazionismo con Putin, di cosa si possa intendere come vittoria ucraina, e di quanto questa vittoria passi per un cambio di regime a Mosca. Se ne fa un gran parlare, non nascondiamoci dietro a un dito, perché l’inverno sta arrivando e la recessione pure, e governi, famiglie e imprese sono legittimamente preoccupati che un escalation del conflitto, o anche solo il suo proseguimento, possano peggiorare le nostre condizioni materiali.
Uno fronte all’altro si fronteggiano due fazioni, ognuna con le sue buone ragioni. C’è chi sostiene che l’Occidente debba sostenere l’Ucraina sino alla vittoria, qualunque cosa Kiev intenda come “vittoria”. Che questa battaglia sul suolo ucraino vale più di una bolletta che aumenta, o di un’impresa che chiude, perché in gioco c’è la democorazia, l’autodeterminazione di un popolo, i valori stessi dell’Occidente. Che qualunque “ma” o qualunque distinguo siano un cedimento a Putin e un implicito sostegno al suo regime. Che i russi siano un “popolo terrorista” contro cui combattere una guerra totale, e con cui ogni dialogo è impossibile fino a che non si ribelleranno al Cremlino.
C’è anche chi sostiene, al contrario, che la guerra debba finire presto, costi quel che costi. Che armare la resistenza ucraina aggravi il conflitto. Che Zelensky, con le sue richieste e il suo oltranzismo, sta trascinando l’Occidente nel pantano della Terza Guerra Mondiale. Che il perdurare della crisi metterà a rischio le democrazie occidentali ben più della guerra di Putin. Che Usa ed Europa debbano mettersi in mezzo e far finire la guerra nonostante le truppe russe siano ancora sul suolo ucraino. Che la minaccia di un’Apocalisse nucleare imponga a ciascuna delle parti in causa di far parlare le diplomazie, anziché le bombe.
Ciascuno ha diritto di pensarla come vuole, e la dialettica delle idee è una delle cose belle del nostro pezzo di mondo. E di ciascuna opinione – partiamo dalle basi – si dovrebbe presumere la buona fede, contestandola nel merito, anziché tacciare chi la pensa in modo diverso di essere il megafono del Cremlino o del Pentagono. Anche perché è una situazione talmente più grande di noi, e talmente complessa, che ogni semplificazione, ogni manicheismo, sono banalizzazioni che lasciano il tempo che trovano. Così come del resto, ogni esito possibile è gravido di conseguenze che ci accompagneranno – nel bene e nel male – per anni, se non per decenni. Conseguenze che nemmeno Nostradamus, oggi, è in grado anche solo di immaginare.
Proprio per questo, abbiamo provato a mettere in fila cinque evidenze “scomode” per entrambe le fazioni, cinque verità che anziché semplificare il quadro, lo complicano, comunque vadano a finire le cose. Che mostrano, banalmente, come l’esito di quanto accadrà nel mondo, a partire dal 24 febbraio scorso, è imponderabile a priori, ma si fonda semmai su una serie di combinazioni casuali che concorreranno a determinarlo. E che sì, probabilmente andrà peggio, molto peggio, prima di andare meglio.
Uno. Cacciare i russi dall’Ucraina è giusto, ma non fa finire la guerra
Su una cosa, più o meno, siamo quasi tutti concordi. Che il miglior esito possibile del conflitto tra Russia e Ucraina sia il ritorno dell’esercito di Mosca fuori dai confini che ha superato il 24 febbraio scorso.
La realtà non è un film, tuttavia. E dopo la vittoria militare ucraina non partiranno i titoli di coda. Con ogni probabilità, il Cremlino finirà per armarsi ancora di più, soprattutto se la vittoria di Kiev darà il là all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato.
Di fronte a una simile prospettiva, probabilmente, i Paesi europei dovrebbero considerare l’ipotesi di rendere permanenti le sanzioni contro Mosca e il blocco alle importazioni di gas e petrolio, cosa che avrebbe notevole impatto sul prezzo dell’energia e sui costi da sopportare per famiglie e imprese, anche a guerra finita. E non è detto – anzi, forse è addirittura probabile – che Mosca continuerà a bombardare l’Ucraina dalle sue postazioni oltre confine. Comunque la si pensi, insomma, forse è il caso di mettersi il cuore in pace: la fine della guerra tra Russia e Ucraina non sarà la fine delle ostilità tra noi e Mosca. Anzi, forse sono appena cominciate.
Due. Le cose a Mosca possono anche peggiorare, senza Putin
Quest’ultima evidenza è il motivo per cui molti pensino sia giusto spingersi oltre, e puntare a detronizzare Vladimir Putin e a portarlo davanti alla corte dell’Aja per rispondere dei crimini di guerra commessi in Ucraina, come accadde al presidente serbo Slobodan Milosevic quando in seguito ai bombardamenti americani perse le elezioni contro Vojislav Koštunica.
Già il parallelismo con Milosevic dovrebbe spiegare quanto sia velleitario questo obiettivo: la Russia non è la Serbia e i bombardamenti americani su Mosca non sono una possibilità percorribile, come lo furono nel 1998 quelli su Belgrado. Rimane la possibilità che Putin sia sconfitto alle urne, deposto da una rivoluzione, o sostituito con un colpo di mano militare.
Delle tre opzioni, forse la terza è la più probabile, ma siamo così sicuri che l’uscita di scena di Vladimir Putin sia il viatico per l’avvento della democrazia liberale in Russia? Tutto lascia intendere il contrario: che la Russia, dopo la sconfitta tanto quanto dopo la vittoria, sia destinata ad avvitarsi ancora di più in una spirale di nazionalismo non democratico. Ne è la prova il fatto che a oggi la fronda contro cui Putin deve guardarsi non è quella dei liberali, ma quella di falchi come il ceceno Ramzan Kadyrov e il boss delle milizie Wagner Evgenyj Prigozhin, che dopo l’attentato al ponte di Crimea hanno spinto Putin ad affidare il comando in Ucraina al “generale Armageddon” Sergey Surovikin.
Tre. Il mondo non ama l’Occidente, Russia o non Russia
Altra scomoda verità: a noi forse interessa avere come vicina di casa una Russia liberale e democratica, ma il resto del mondo non la pensa esattamente come noi. Non lo pensa la Cina, che invece mira a rinsaldare un’alleanza che sposti l’asse geopolitico del mondo a Oriente, e per farlo ha bisogno che a Mosca ci sia un regime ostile all’Occidente. Non lo pensano i Paesi con cui la Russia ha un’alleanza militare nell’Asia minore, in Medio Oriente, in Africa. Non lo pensa nemmeno l'Arabia Saudita, storico alleato americano, che con la Russia ha fatto un accordo sul prezzo del petrolio. Non lo pensano – mettiamoci il cuore in pace – molte opinioni pubbliche del pianeta, e non lo pensano soprattutto in chiave anti Occidentale. Opinioni pubbliche, non dimentichiamocelo mai, abituate a decenni di imperialismo e colonialismo americano ed europeo per scandalizzarsi di quello russo o cinese.
Attenzione: dire che la centralità geopolitica Occidentale, o anche solo americana, è in discussione, allo stato attuale è controfattuale. Però occorre stare attenti ai segnali che arrivano dal resto del mondo. Perché vedere l’Occidente soccombere, o comunque in difficoltà contro la Russia, rappresenta per ciascuno di loro – a vari livelli – una grande opportunità per accrescere il loro dominio regionale, per guadagnare spazi di autonomia e prevaricazione nei confronti di vicini più deboli. Un esempio su tutti: tanto noi speriamo che una sconfitta russa in Ucraina possa spegnere le velleità cinesi su Taiwan, tanto Pechino spera che il perdurare del conflitto russo costituisca un’opportunità per chiudere i conti con l’isola ribelle.
Quattro. La Russia non è una democrazia, noi sì
Più che preoccuparci delle opinioni pubbliche altrui, piuttosto, dovremmo cominciare a preoccuparci delle nostre. Perché no, la Russia non è più una democrazia, ammesso che lo sia mai stata. E no, nemmeno la Cina è una democrazia. Le nostre, invece, lo sono. E per quanto possa essere una correlazione spuria, è difficile non notare che in Uk e Italia siano caduti i due governi più filo ucraini dell’Occidente. Che, proprio in Italia, nonostante i proclami atlantisti di Giorgia Meloni, abbia vinto le elezioni una coalizione i cui leader sono uno che si vantava di essere amico personale di Putin, uno il cui partito ha un’alleanza strategica col partito di Putin, e una che ancora oggi dice di aver come modello il presidente ungherese Viktor Orban, l’unico che non ha mai smesso di intrattenere legami con Putin e che ha dichiarato di aver vinto le elezioni anche “contro Zelensky”.
E ancora: che le destre nazionaliste crescano più o meno ovunque in Europa. E che negli Usa il tasso di approvazione del presidente Biden è pari al 40%, a fronte di sondaggi che lo danno sovente perdente in una riedizione delle elezioni del 2019 contro un Donald Trump che invece spinge per un accordo con Mosca.
Ecco, questa è la situazione attuale: pensate a quale potrebbe essere dopo che l’inflazione e la recessione avranno picchiato duro sul benessere delle famiglie e delle imprese europee e americane. Serviranno calma e sangue freddo per evitare che questa guerra trasfiguri l’essenza stessa della nostra democrazia. E quest’ultima a ben vedere sarebbe la vera vittoria di Putin.
Cinque. La bomba atomica è una minaccia reale (e non è la sola)
Ultimo ma non meno importante dettaglio: la Russia di Vladimir Putin è il Paese con più bombe atomiche al mondo. Che a sua volta si è detto più volte, in questi mesi, intenzionato a usarle se l’esistenza russa – leggi: il suo regime – sarà minacciata da ingerenze esterne. Oggi l’Occidente è diviso tra chi pensa sia un bluff e chi, come ha detto il presidente americano Joe Biden, sia una minaccia reale.
Sia come sia, Putin gioca con l’atomo con una disinvoltura a cui abbiamo finito per abituarci, ma che solo dieci mesi fa ci sarebbe sembrata impossibile, prendendo il controllo di siti radioattivi e bombardando centrali nucleari, incurante di possibili incidenti. Che tale disinvoltura possa essere preludio all’uso di un missile con testata atomica sul suolo ucraino non lo sappiamo. Ma sappiamo che se dovesse accadere entreremmo in uno scenario di guerra totale – non più fredda – tra le due grandi potenze nucleari del globo.
Non solo: perché il blocco dei treni a Berlino di domenica scorsa – e il conseguente licenziamento di Arne Schoenbohm, responsabile della cyber sicurezza tedesca – fanno pensare che si potrebbe aprire un pericoloso fronte di guerra anche nel campo degli attacchi hacker a centrali elettriche, satelliti artificiali, reti internet, ospedali. E che tutto questo potenziale bellico, su cui tanto si è investito, ma che non è stato quasi mai utilizzato, potrebbe produrre effetti imponderabili sulle nostre vite.
Piccolo, ulteriore, dettaglio: l’aumento delle spese militari, in tutto il mondo, è in crescita vertiginosa da quasi un decennio, e non solo tra Russia, Stati Uniti ed Europa. Nel 2021 abbiamo raggiunto la cifra record di 2 trilioni di dollari spesi in un solo anno. E come ci insegna la Storia, se il mondo comincia ad armarsi a più non posso, quelle armi, prima o poi, spareranno. Tanto più se si continua a soffiare sul fuoco della guerra. O a camminare come sonnambuli verso l’Apocalisse.