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Guerra in Ucraina

Cinque motivi per temere davvero la Terza guerra mondiale (se non ci fermiamo in tempo)

Il riarmo globale, la crisi dell’impero americano, il fabbisogno energetico e le terre contese, la democrazia malata. Ecco perché l’invasione della Russia in Ucraina potrebbe essere il detonatore di cose molto peggiori.
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Dopo un mese esatto di invasione russa in Ucraina di una cosa possiamo essere quasi certi: che non possiamo rubricarlo a conflitto regionale, come lo sono stati quelli in Cecenia e in Georgia, scatenati da Vladimir Putin nel corso della sua fulgida carriera da autocrate imperialista mentre eravamo distratti altrove, o come in fondo lo sono stati anche quello siriano o addirittura la stessa devastante guerra dei Balcani negli anni novanta.

No, l’invasione della Russia in Ucraina è una cosa diversa. E lo è per le premesse che l’hanno scatenata, per il contesto in cui si è manifestata e per le conseguenze che sta generando, più che per la natura del conflitto in sé, né più né meno orrendo di tutti gli altri conflitti. E se pure la retorica della Terza guerra mondiale è a volte evocata a sproposito, come arma negoziale o come minaccia, fate voi, non è una prospettiva che dobbiamo escludere a priori. E non solo perché siamo entrati nella terra ignota dell’impossibile che diventa possibile – una guerra nel cuore dell’Europa, il ritorno della contrapposizione bellica tra le due grandi potenze atomiche -, ma anche perché ci sono almeno cinque segnali che concorrono a rendere perlomeno realistica la prospettiva di un conflitto che si estenda a macchia d’olio in tutto il mondo, coinvolgendo altre potenze e altri territori.

Il primo segnale è che tutti si stanno riarmando. Non solo l’Italia, che lo sta facendo da prima della guerra, e più in generale la Nato. Non solo la Germania, che dal secondo dopoguerra si è sempre distinto come Stato pacifista. Non solo il Giappone di Hiroshima e Nagasaki che ora vuole l’atomica. Il progressivo processo di riarmo è già in atto da parecchio tempo ed è un fenomeno globale in atto almeno dall’arrivo di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, che ha fatto strame degli auspici di Barack Obama per un mondo senza atomica seppelliti dalla lapidaria convinzione di The Donald secondo cui gli Stati Uniti non avrebbero dovuto rinunciare alla supremazia atomica. Un segnale, questo, che ha dato il via a un ulteriore spinta al riarmo della Russia – i missili ipersonici Avangard, fiore all'occhiello dell'apparato atomico russo, sono stati sviluppati nel 2018 – e della Cina. In un mondo che corre verso il riarmo, la prospettiva di nuovi conflitti è solo questione di tempo, figlio dell’incentivo a usare le armi, prima che si riarmi l’altro. È esattamente quel che ha fatto la Russia in Ucraina, del resto.

Il secondo segnale è che gli Usa non intervengono più come prima, e in questo senso il disimpegno in Afghanistan, con il ritorno dei Taliban vent’anni esatti dopo l’11 settembre, è stato un segnale fortissimo per le altri grandi potenze o presunte tali. Il segnale che non c’è più un impero americano e che nell’opinione pubblica americana non c’è più alcuna voglia di far tornare a casa bare bianche avvolte in una bandiera a stelle e strisce per difendere il dominio americano sul mondo. Se sei armato fino ai denti e si allenta la minaccia di una ritorsione militare americana, gli incentivi a imporre la tua egemonia su ciò che ti circonda è fortissima. In questo caso, Putin ha avuto ottimo gioco a confidare in questa convinzione e a mettere immediatamente sul tavolo lo spettro della minaccia atomica.

Il terzo brutto segnale è il fabbisogno mondiale crescente di energia e di materie prime, figlio di una transizione ecologica imminente e di una rivoluzione tecnologica in atto. Putin ha attaccato consapevole anche del prezzo del metano salito alle stelle e della dipendenza europea dai suoi gasdotti alla fine dell’inverno, quando le riserve sono quasi a zero. Ma aspettiamoci anche che altri conflitti possano nascere per terre ricche di materie prime come l’uranio o le terre rare necessarie a estrarre gli elementi costituitivi di tutti i nostri smartphone e delle nostre automobili elettriche.

Il quarto brutto segnale – corollario del secondo e del terzo – è che oggi tutti si sentono in diritto di reclamare terre contese. Solo per rimanere a Oriente, parliamo delle isole Curili, ricche di terre rare, che tornano a essere contese tra Russia e Giappone, delle isole Dondo e Takeshima, contese da Giappone e Corea del Sud, di Taiwan, da tempo immemore nel mirino di Pechino, e delle isole del mar cinese meridionale oggetto di aspre contese tra Usa e Cina e che oggi, a dirlo è il Pentagono, sono di fatto delle basi militari cinesi. Se andiamo a nord c’è l’Artico, con le sue rotte commerciali che si aprono mentre i ghiacciai si sciolgono e le materie prime e le riserve energetiche – ancora una volta uranio, terre rare, metano, petrolio, sepolte sotto il terreno – e gli interessi russi sulle isole Svalbard e quelli cinesi e americani sulla Groenlandia sono solo l’aperitivo di quel che potrebbe succedere.

Il quinto brutto segnale, forse il peggiore, è che la democrazia sta attraversando un periodo di forte crisi. Lo vediamo nello scivolamento di Russia e Turchia – due democrazie, perlomeno sulla carta – verso la costituzione di regimi sempre più autoritari. Lo vediamo nella Cina di Xi Jinping, che a differenza dei suoi predecessori può rimanere in carica a vita e che ha stretto le maglie della libertà in un Paese che prima di lui si stava progressivamente aprendo. Lo vediamo in Iran, dove ormai non si parla più di riforme, e in Afghanistan, col ritorno dei Taliban, in Egitto con Al Sisi, in Siria con Assad dove l’eco delle primavere è ormai un ricordo lontanissimo. E lo vediamo anche da noi, dove negli ultimi cinque anni almeno abbiamo toccato gli argini della fragilità dei nostri sistemi democratici Occidentali, che tra Capitol Hill e grandissime coalizioni hanno mostrato di non funzionare più bene come un tempo, e che la pandemia ha inevitabilmente, ulteriormente minato. E che la guerra russa in Ucraina minaccia di minare ulteriormente. Sempre che non ci svegliamo per tempo, ovviamente.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it e membro del board of directors dell'European Journalism Centre. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro.15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019). Il suo ultimo libro è "Nel continente nero, la destra alla conquista dell'Europa" (Rizzoli, 2024).
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