Nel 1997 arrivai, insieme con il fotoreporter Nino Leto, nella Kabul da qualche mese controllata dai talebani. Fu un viaggio da vecchia retorica dell’inviato: da Peshawar (Pakistan) su e giù per valli e montagne e posti di blocco su un vecchio pulmino scassato guidato da un ragazzo, l’uno e l’altro ottenuti dopo ore di trattative e decine di tè nella rappresentanza che gli studenti coranici avevano aperto nella città pakistana. A Kabul ci sistemammo nell’Intercontinental, vecchio scatolone grigio da mille camere costruito a suo tempo dai sovietici. Niente, acqua, niente luce, riso e uova a pranzo, cena e colazione, serviti da ragazzi irsuti ma gentili con il kalashnikov in spalla. Una parodia resa più grottesca, il giorno dopo, dall’arrivo di due colleghi del New York Times. Il fotoreporter americano credeva di essersi mimetizzato da afghano, visto che indossava il pakol (il tradizionale cappello tondo) e un mantello. Non erano passate altre ventiquattr’ore che già l’avevano menato, perché si era buttato a flashare le donne in burqa.
A Kabul, però, c’era poco da ridere. La popolazione, che aveva accolto i talebani con favore perché avevano fatto finire la guerra civile, cominciava a capire quanto salato fosse il prezzo. L’umiliazione delle donne, la discriminazione delle bambine, lo spregio dell’istruzione che non fosse quella coranica, la repressione di ogni forma di allegria, dalla musica ai più banali divertimenti… L’arbitrio totale delle “autorità”. Le armi e la povertà, dappertutto. Un incubo medievale. Mentre eravamo lì, tre suore di Madre Teresa, rimaste a Kabul con incredibile coraggio, furono fustigate per strada con dei cavi elettrici perché il loro portamento non era abbastanza discreto. Ma quando intervistammo e fotografammo il capo della guarnigione talebana della capitale, quello che organizzava i roghi pubblici di libri e musicassette, (chi volesse, lo può vedere nella foto di profilo della mia pagina Facebook), aspettammo una decina di minuti perché finisse di pettinarsi la barba.
Ecco: di fronte alle immagini spaventose della caduta di Kabul, chi prevede un ripetersi della storia dovrà probabilmente ricredersi. Perché questi talebani, che qualcuno già tagga come talebani 2.0, sono molto più smagati e politicamente accorti dei loro genitori. Parlo di genitori non a caso. Mullah Muhammad Yaqoob, leader militare dell’attuale movimento, è figlio del Mullah Omar, che fu tra i fondatori del movimento originario. Fu Yaqoob ad annunciare nel 2015 la morte del padre, avvenuta peraltro due anni prima in un rifugio come si vede molto segreto. Sirajuddin Haqqani, responsabile delle finanze e della logistica, è figlio di Jalaluddin Haqqani, che fu un noto comandante militare, l’uomo che introdusse gli attentati kamikaze nella pratica talebana.
Questo il sangue nuovo (ma di provata fede) arrivato a rivitalizzare i ranghi. Che al vertice, peraltro, hanno figure tutt’altro che incartapecorite. Un gruppo di sessantenni guidati dal leader supremo Haibatullah Akhunzada, per quindici anni predicatore e insegnante in una moschea in Pakistan fino a quando, nel 2016, è entrato in clandestinità per sostituire Akhtar Mansour, ucciso dagli americani. E poi Mullah Abdul Ghani Baradar, capo dell’ufficio politico, e Abdul Hakim Haqqani, il “ministro degli Esteri”, l’uomo che ha negoziato con gli americani e con i russi, il vero braccio destro di Akhunzada.
Negli ultimi vent’anni, mentre “noi” eravamo impegnati a portare soccorsi, aprire scuole, costruire acquedotti e ospedali e occasionalmente a fare la guerra (insomma, il quesito mai risolto su che diavolo davvero stessimo facendo in Afghanistan), “loro” ci studiavano e imparavano. Con calma, appostati nei santuari afghani o in quelli del Pakistan. E la prima lezione che hanno mandato a memoria è stata che presentarsi come i più puri tra i puri musulmani, combattere l’Occidente e ospitare la centrale mondiale del terrorismo ti lascia solo e ti fa finire male. Così hanno sfruttato le ansie cinesi sulla regione musulmana dello Xinjiang e le ambizioni della Nuova via della Seta, e quelle russe sull’Asia Centrale (l’Afghanistan confina con Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) per ottenere un sostanziale via libera da Pechino e da Mosca. Il ministro degli Esteri Wang Yi ha incontrato Mullah Baradar, e sono già leggenda i filmati delle barbe e dei turbanti delle delegazioni talebane tra gli stucchi, gli ori e i clienti basiti dello Hyatt di Mosca, per le conferenze stampa dopo gli incontri al ministero degli Esteri. Con il Pakistan non c’è problema (e in caso di difficoltà, la pressione cinese in funzione anti-India spianerà tutto), con il Qatar sponsor dei Fratelli Musulmani nemmeno, visto che da molti anni la capitale Doha è di fatto la sede dell’ufficio politico dei talebani. Recep Tayyep Erdogan, poi, smania per tuffarsi nel Grande Gioco: si è detto pronto a incontrare la leadership dei talebani e magari a gestire l’aeroporto di Kabul.
In sintesi: mentre i “vecchi” talebani avevano conquistato l’Afghanistan, se n’erano sorpresi e poi avevano cominciato a pensare a cosa farne, questi “nuovi” hanno pensato a lungo e poi si sono presi il Paese. Nemmeno per un istante hanno creduto di coltivare la splendida solitudine islamista adorata dai genitori e, prevedibilmente, hanno scelto di dialogare con il fronte dei Paesi (Cina e Russia in primo luogo) che vogliono fare da baluardo allo strapotere occidentale.
L’Afghanistan, come abbiamo visto, se lo sono presi in un mese. Senza grandi battaglie, facendo soprattutto la faccia feroce. L’esercito afghano, da noi così ben addestrato, si è sciolto come il burro, tra rese, diserzioni di massa e pure e semplici fughe. Il potere politico non parliamone, con il presidente Ashraf Ghani che un giorno incita alla resistenza e il giorno dopo scappa all’estero. Abbiamo passato vent’anni tra quei monti, speso migliaia di miliardi, sacrificato decine di migliaia di vita nostre e loro e siamo si è no riusciti a graffiare la superficie. Molti si chiedono come sia stato possibile. Consoliamoci: da Alessandro Magno all’Unione Sovietica, siamo solo gli ultimi di una lunga serie. Ma soprattutto cerchiamo di studiare un po’ di più e prima. Abbiamo scoperto (dopo) che gli sciiti iracheni sono fedeli all’Iran, che in Libia senza un forte potere centrale le tribù riprendono il controllo, che in Siria non tutti i musulmani sunniti sono contro l’alawita Assad.
Ci sarebbe servito tenere presente (prima) che in Afghanistan solo il 20% della popolazione è urbanizzato. Il resto vive in luoghi per lo più isolati e sperduti dove l’appartenenza al clan e la fedeltà alle tradizioni sono ancora un fattore decisivo. Se gli porti le medicine e fai studiare le bambine ti lasciano fare e sono pure contenti. Ma non per questo sono disposti a buttar via un millennio di convinzioni. Men che meno se chi arriva presenta sulla punta del fucile il ricatto morale e sociale dell’appartenenza religiosa. A noi arrivano le immagini di Kabul, dove una parte della popolazione, che ha vissuto a diretto contatto con gli occidentali, ne ha assorbito l’esempio e da essi ha anche tratto profitto, è giustamente terrorizzata dal cambio di regime. Ma Kabul non è l’Afghanistan. Che succede, per esempio, a Taloqan, la piccola città del Nord dove rimasi per qualche giorno nel 2001, seguendo l’avanzata delle tribù del Nord anti-talebane? Nessuno lo sa, nessuno lo racconta. E anzi: dove sono, ora, quelle tribù che parevano così ansiose di accompagnare gli americani verso Kabul?