In un articolo precedente abbiamo parlato della possibilità di un colpo di mano contro Vladimir Putin per fermare la guerra in Ucraina, impedire un massacro e salvare la Russia da un probabile disastro economico e sociale. E abbiamo sottolineato che, come sempre avviene in questi casi, e com’è avvenuto nel 1964 nell’Urss con la rimozione di Nikita Khrushcev e nel 1991 con il golpe contro Mikhail Gorbaciov, sono sempre i presunti “fedelissimi” a pugnalare alle spalle il leader.
Se questa legge è sempre valida, nel caso di Putin il principale candidato dovrebbe essere Sergey Shoigu, 66 anni, dal 2012 ministro della Difesa. Almeno per il momento, è difficile immaginare qualcuno al quale la definizione di fedelissimo vada più a pennello. E lo stesso Putin, che sull’equilibrio dei potenti e dei potentati ha costruito la propria carriera, non ha esitato a confermarlo, prendendosi nel marzo e nel settembre dell’anno scorso due brevi vacanze nella taigà siberiana, abbondantemente fotografate e raccontate dai media russi, proprio con Shoigu: pesca nei torrenti, campeggio nella neve e persino una visita al laboratorio di falegnameria del ministro, appassionato di intarsio del legno a livelli da professionista. Un “onore” mai riservato ad altri, almeno in maniera così pubblica.
Sergey Kuzhugetovic Shoigu (ma il suo nome originale, nella lingua della regione d’origine, sarebbe Sergey Kuzhuget oglu Shoigu) è nato a Chadan nella Repubblica siberiana di Tuva ed è laureato in Ingegneria civile. Se il padre era tuvano, la madre, Aleksandra, era ucraina. Il che, oggi, con la guerra in corso, prende un significato molto amaro. Ci si potrebbe chiedere come un ingegnere sia finito a comandare uno degli eserciti più potenti al mondo, fino a portare la guerra nel cuore dell’Europa e a tenere il dito sul bottone nucleare dell’arsenale russo. E la risposta ci porta a scoprire uno degli uomini più erroneamente sottovalutati dell’era Putin.
A scorrere la biografia si scopre quasi il vicino della porta accanto. Shoigu suona la chitarra, colleziona spade giapponesi, cinesi e indiane, come si è detto intaglia il legno. Nell’hockey tifa per il CSKA Mosca, nel calcio per lo Spartak. Ha una moglie, Irina, presidentessa di una società che opera nel turismo. E due figlie: Yulija, 47 anni, e Ksenya, 31. Secondo le denunce di Aleksy Navalny, gli Shoigu sarebbero proprietari di un palazzo alla periferia di Mosca valutato 12 milioni di dollari.
Questo è l’uomo, accuratamente nascosto dietro la maschera della personalità. Il personaggio è un’altra cosa. Intanto Shoigu non nasce con Putin. Alla fine degli anni Ottanta aveva intrapresa una grigia ma promettente carriera di funzionario comunista nella regione d’origine per poi trasferirsi a Mosca nel 1990, secondo il classico procedimento che in epoca sovietica accompagnava i burocrati più brillanti o ambiziosi. Nella capitale viene nominato vice-capo della Commissione statale per l’edilizia. Subito dopo crolla l’Urss e lui diventa capo del Dipartimento della protezione civile. Si segnala in diverse occasioni (disastri naturali, attentati terroristici) e nel 1994, quando il Dipartimento viene trasformato in ministero, la sua conferma da parte del presidente Eltsin, questa volta nel rango di ministro, è scontata.
Il momento decisivo è proprio questo. Da un lato, il ministero delle Situazioni di emergenza, in un Paese disastrato come la Russia dell’epoca, offre infinite occasioni di mettersi in mostra, soprattutto a un tipo efficiente e totalmente dedito al lavoro come Shoigu. Non a caso nel 2009 un sondaggio del Centro di ricerca dell’opinione pubblica russa (Viciom) lo consacra come il ministro più popolare e apprezzato del Governo, con il 76% di consenso. Ma soprattutto quel ministero gli permette di fare le prove generali per la successiva carriera, perché alle Situazioni d’emergenza lui si trova a dirigere un colosso con 350 mila dipendenti e con una forza di polizia con migliaia di uomini. Non a caso in Russia anche quello è inserito tra i “ministeri della forza”, ovvero quelli che dispongono di corpi armati.
Nel 2012, come si è detto, Putin lo sposta nel ruolo delicatissimo di ministro della Difesa. Un civile (anche se viene prontamente nominato generale) a comandare i militari. L’unico sopravvissuto dell’era Eltsin a occupare una posizione delicata nell’apparato di potere dell’era Putin. Ministro per la prima volta a 39 anni, nel cuore del sistema politico-militare russo a 57. Mica male per un provinciale siberiano. E anche alla Difesa Shoigu si segnala. È un ottimo collaboratore dello Zar. È lo stratega della riannessione della Crimea e dell’insurrezione del Donbass nel 2014, dirige perfettamente l’intervento militare russo in Siria. E non solo: come ministro della Difesa è anche responsabile del Gru, il servizio segreto dei militari, cui vengono attribuite le operazioni degli hacker contro diverse istituzioni occidentali (per esempio le interferenze pro-Trump nelle elezioni presidenziali Usa del 2016) e le incursioni degli agenti segreti russi per eliminare veri o presunti traditori, come nel famoso “caso Skripal”. Ma Shoigu è ormai amatissimo anche dagli uomini in divisa, perché dirotta sul ministero e sulle forze armate fondi molto ingenti e anche perché lavora bene. Nel novembre scorso Shoigu ha potuto annunciare che la triade nucleare russa (missili, sommergibili e bombardieri) è per l’89,1% dotata di armi e apparecchiature nuove, quasi il 2% più di quanto era stato programmato nei documenti strategici per il 2021.
Proprio in questo sta la vera forza di Shoigu. È l’unico ministro, oggi, che sarebbe seguito dai suoi uomini se decidesse di muoversi contro Putin. E per rimuovere l’inquilino del Cremlino serve non solo una truppa ma una truppa disponibile a seguire un nuovo ipotetico leader. Già vent’anni fa Shoigu veniva dato come un possibile successore di Boris Eltsin. E se si fosse stufato di aspettare?