Nell’assurdità di una guerra, quella tra Israele e chi governa la striscia di Gaza, che, in pochi giorni, ha superato ogni soglia di crudeltà e orrore, c’è qualcosa che suona ulteriormente assurdo. Che a provocarla, a scatenarla e a portarla avanti oltre ogni grado di atrocità immaginabile sono due forze politiche che agli occhi dei rispettivi popoli dovrebbero essere messe alla sbarra per gli enormi danni che stanno arrecando loro. E che invece, proprio grazie alla guerra – forse solo grazie alla guerra – stanno riuscendo a consolidare consenso e potere all’interno dei rispettivi territori.
Parliamo, ovviamente, di Hamas a Gaza e del governo guidato da Bibi Netanyahu in Israele, entrambi responsabili della sofferenza dei loro popoli, prima che del popolo cui si contrappongono. Lo è Hamas, che con un attacco tanto inumano quanto suicida, ha prestato il fianco a una rappresaglia israeliana che si annuncia – e che comunque già è – altrettanto efferata e crudele nei confronti dei civili. Lo è, allo stesso modo, Netanyahu, che da un lato ha soffiato sul fuoco della rabbia palestinese, mentre dall’altro ha allentato inspiegabilmente le maglie dell’intelligence e del presidio dei confini, permettendo ad Hamas di penetrare come il burro le difese israeliane.
Detta in altre parole: chi ha a cuore la causa palestinese, oggi, dovrebbe scendere in piazza contro Hamas e i suoi leader, che al caldo delle loro abitazioni in Qatar, di quella causa e della sopravvivenza del loro popolo sono oggi il primo nemico. E come con loro, dovrebbero prendersela con cui come l’Iran usa la causa palestinese come incidente alla bisogna per destabilizzare il quadro geopolitico mediorientale e globale.
Allo stesso modo, chi ha a cuore la causa di Israele dovrebbe fare come i progressisti israeliani e chiedere a gran voce le dimissioni di Bibi Netanyahu, che a colpi di leggi autocratiche, di aperture all’estrema destra ultra ortodossa e di clamorosi errori di valutazione, ha reso il suo popolo vulnerabile come non lo era mai stato dal 1948.
Tornare con la memoria ai tempi della stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat non è pura retorica pacifista. È l’amara constatazione di quanti passi indietro sono stati fatti in trent’anni. Trent’anni in cui i pifferai dell’odio hanno consolidato le loro posizioni agitando lo spauracchio del nemico, provocandolo, promettendone l’annientamento. E riuscendo nell’impresa, ogni volta, di renderlo più forte.
Anche oggi andrà così. Di fronte alla minaccia di un altro 7 ottobre, mai gli israeliani sceglieranno qualcuno che anteponga la pace alla guerra. E allo stesso modo, gli abitanti di Gaza si stringeranno ancora di più attorno ad Hamas e alle sue promesse di tremenda vendetta. Ancora una volta Gaza e Israele sceglieranno di esistere in ragione della distruzione dell’altro. Ancora una volta, ingoieranno il peggior veleno sperando che sia l'altro a morire. Ancora una volta, perché non gli rimane ormai nient’altro in cui sperare.