Chi c’è dietro l’attacco alla base USA in Giordania e perché può causare un’escalation della guerra
Tre soldati statunitensi sono stati uccisi e 34 feriti in un attacco con un drone alla base militare USA Tower 22: il raid è stato condotto nella Giordania nord orientale, vicino al confine con la Siria e l'Iraq, e ad essere stato preso di mira è stato un importante avamposto da cui le forze americane conducono dal 2016 la guerra contro l’Isis nonché operazioni di contrasto al traffico di captagon, droga composta da un mix di metamfetamina e caffeina ampiamente diffusa tra gli eserciti impegnati nei conflitti in tutto il Medio Oriente.
"Stiamo ancora raccogliendo informazioni su questo attacco, ma sappiamo che è stato effettuato da gruppi radicali sostenuti dall’Iran che operano in Siria e Iraq", ha dichiarato il presidente americano Joe Biden, che ha anche promesso una risposta adeguata ai responsabili. Dal canto suo Teheran ha negato ogni coinvolgimento diretto: "Come abbiamo chiaramente affermato in precedenza, i gruppi della resistenza nella regione stanno rispondendo ai crimini di guerra e al genocidio del regime sionista a Gaza e non prendono ordini dalla Repubblica islamica dell'Iran", ha affermato il Ministero degli Esteri.
Quello alla base Tower 22 è stato il primo attacco ad aver causato la morte di soldati americani dall'inizio della guerra di Israele contro Gaza, il 7 ottobre. L’attacco arriva in un contesto di crescenti tensioni nella regione e rischia di determinare un'ulteriore escalation del conflitto in Medio Oriente. Fanpage.it ha fatto il punto della situazione con il professor Giuseppe Dentice, analista specializzato in Medio Oriente e Nord Africa del CESI (Centro Studi Internazionali) nonché dottore di ricerca in “Istituzioni e Politiche” presso la Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Ieri è stata attaccata un'importante base statunitense nella Giordania nord orientale, vicino al confine con la Siria. Cosa sappiamo di questo raid?
Quello che sappiamo è che l'attacco è stato condotto con droni presumibilmente in dotazione a milizie filo sciite vicine all'Iran: è stato colpito un importante avamposto statunitense chiamato Tower 22 che sorge ad At-Tanf, in territorio giordano ma in una zona di raccordo con i confini siriano e iracheno. Il sito era stato bersagliato anche il 4 gennaio, ma in quel caso non vi furono feriti. Ad ogni modo, quella coinvolta è un'area molto importante: qui, infatti, nel 2016 gli Stati Uniti posero una guarnigione il cui scopo principale era condurre operazioni anti terrorismo contro l'Isis, oltre che addestrare le forze di opposizione al regime di Assad, cioè gruppi arabo-sunniti e curdi. I militari statunitensi però hanno svolto nell'area anche importanti operazioni anti-droga, dal momento che questa zona del Medio Oriente è stata inondata dal captagon, la cosiddetta "droga dell'Isis" che è, di fatto, la principale risorsa economica dello stato siriano. Quello che rimane dell'apparato subordinato ad Assad infatti è chiaramente dietro a questo commercio illegale.
E cosa sappiamo del gruppo che ha rivendicato il raid, Resistenza Islamica in Iraq?
Stiamo parlando di un "cappello" di milizie filo-sciite irachene, alcune delle quali sorte nel periodo della lotta all'Isis. Tali gruppi si sono sistematicamente mossi nelle aree di confine e – almeno in parte – hanno cercato anche di penetrare l'establishment iracheno per condizionare le capacità d'azione del governo e delle istituzioni, anche facendosi portatori di interessi esterni, in questo caso quelli iraniani. L'obiettivo principale di Teheran è quello di riuscire ad allontanare Washington da queste aree, rivendicando una sua capacità e forza in chiave anti occidentale.
L'attacco alla base americana Tower 22 tuttavia aumenta ulteriormente la tensione in Medio Oriente. Da più parti è stato puntato il dito contro l'Iran, accusato di voler alzare il livello dello scontro.
L'attacco ci dice che vi è chiaramente un innalzamento della tensione: che dietro il raid ci sia l'Iran o meno, quello che è certo è che sono stati coinvolti gli americani. E questo equivale a una chiara volontà di allargare il conflitto: oggi non si combatte più solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Yemen, nel Mar Rosso, al confino israelo-libanese e nella zona desertica a cavallo tra Giordania, Siria e Iraq. È evidente che lo zampino iraniano potrebbe esserci: si tratta di aree in cui sono presenti milizie sciite e in cui Teheran ha interesse a coinvolgere gli americani, per disperderne l'attenzione su più scenari creando una sorta di "guerra d'attrito" su più fronti contemporanei. Gli Stati Uniti dovranno ora decidere che tipo di risposta dare: se sarà troppo forte potrebbe costituire un pretesto affinché i nemici lancino altri attacchi. Allo stesso tempo una risposta eccessivamente limitata non sortirebbe gli effetti necessari.
Qualche giorno fa Washington e Baghdad hanno dichiarato di essere disposti ad avviare colloqui sulla fine della presenza della coalizione militare internazionale guidata dagli Stati Uniti in Iraq. L’attacco di ieri vuole accelerare questa "uscita" dell'America dalla regione?
Tali negoziati sono iniziati anni fa, si annunciano ancora lunghi e mirano alla fuoriuscita totale delle forze americane in Iraq. Il governo di Baghdad tuttavia è ancora troppo fragile per riuscire a garantire la sicurezza del Paese, di conseguenza si avvale ancora di forze USA, milizie armate filo-sciite e filo-sunnite per confrontarsi con gli attori politici e ribadire il controllo del territorio. Un'uscita di scena degli americani, quindi, costituirebbe un problema anche per il governo iracheno. Gli unici a volere che gli statunitensi se ne vadano definitivamente, e in tempi rapidi, sono gli iraniani.
Gli attacchi alle basi americane in Iraq non rischiano però di compromettere i negoziati in corso?
Sì, il rischio c'è. Ma gli attacchi intendono anche aumentare la pressione sia verso il governo iracheno che verso quello statunitense. Si tratta chiaramente di una mossa molto rischiosa.
Il ministro degli Esteri iraniano ha dichiarato che "i gruppi della resistenza nella regione stanno rispondendo ai crimini di guerra e al genocidio del regime sionista a Gaza e non prendono ordini dalla Repubblica islamica dell'Iran". Cosa c’è di vero?
Gli Houthi ed Hezbollah hanno un buon grado di autonomia rispetto all'Iran in quanto hanno anche interessi indipendenti da Teheran. Le milizie attive in Siria e Iraq sono invece una sorta di quinta colonna iraniana e si muovono per interesse diretto. Anche nell'ipotesi in cui non vi fosse stato un diktat esplicito da parte dell'establishment iraniano, è difficile pensare che tali milizie si siano mosse in perfetta autonomia.
Se Israele interrompesse i raid su Gaza gli attacchi alle base statunitensi e quelli nel Mar Rosso cesserebbero?
Non vi è nessuna prova che, se oggi venisse raggiunto un accordo tra Israele e Hamas, gli Houthi smetterebbero di condurre attacchi nel Mar Rosso. Dubito che accadrebbe. Penso, invece, che la tragedia di Gaza venga utilizzata prevalentemente in chiave propagandistica dagli oppositori di Israele e dell'Occidente.
Il susseguirsi di attacchi agli USA rischia di determinare un'escalation del conflitto in Medio Oriente?
Una risposta all'attacco di ieri ci sarà e lo stesso Biden ha parlato esplicitamente di rappresaglia: andrà capito come verrà condotta, verso chi e in quali termini. Sarà molto importante scoprirlo: dal tipo di risposta degli USA comprenderemo anche la possibile controreplica iraniana o dei suoi proxy sciiti. Personalmente credo Washington pianificherà una risposta forte ma controllata perché non intende estendere il conflitto né farsi coinvolgere direttamente sia per un problema legato ai costi economici di una nuova avventura bellica, sia per ragioni meramente elettorali. Ricordiamo che Biden deve la sua elezione alla Casa Bianca anche alla promessa che non avrebbe più condotto guerre in Medio Oriente. Se a pochi mesi dalle elezioni gli americani dovessero trovarsi coinvolti in un conflitto proprio in quell'area per il presidente potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol di cui beneficerebbe direttamente Donald Trump. Insomma, quella in corso è una complicatissima partita a scacchi in cui ogni mossa rischia di rivelarsi sbagliata.