Avvertenza preliminare: se siete tra quelli che “ha cominciato prima lui”, quelli che “occhio per occhio, dente per dente”, quelli che “solo una guerra ancora più crudele e spietata può far finire una guerra crudele e spietata”, fate prima a chiudere questa pagina e andarvi a leggere altro. Questo articolo non fa per voi.
Per tutti gli altri: partiamo da Gaza, e dalla cronaca. Che racconta già oggi di un milione di civili sfollati, di migliaia di bambini morti – più di duemila in meno di un mese, secondo Save The Children – di incubatrici spente per mancanza di energia elettrica. Di dottori costretti a operare i loro pazienti con la luce del loro smartphone. Di bombardamenti a tappeto su una delle aree urbane più densamente popolate al mondo, del tutto priva di bunker e rifugi per i civili.
Partiamo da qua, da quello che sta avvenendo ora. Consapevoli che l'invasione di terra della Striscia da parte di Israele iniziata ieri notte con una serie di bombardamenti senza precedenti, di cui mentre scriviamo possiamo solo immaginare gli effetti, può solo rendere il bilancio già catastrofico di queste ore un’apocalisse umanitaria sul suolo di Gaza. Partiamo da qua, e per una volta non serve nemmeno addentrarci nelle ragioni e nei torti del governo di Israele e dei capi di Hamas e di quale tra i due popoli, quello israeliano e quello palestinese, abbia più legittimità a odiare l’altro.
Partiamo da qua, e fermiamoci qua. Alla tragedia di una marea di esseri umani uccisi in modo brutale, di famiglie spezzate, di bambini resi orfani dalla sete di vendetta, di adulti che devono sopportare il dolore più grande che c’è, quello della morte di un figlio, di gente che ha perso tutto quel che poteva perdere.
Fermiamoci per un secondo a guardare tutto quel dolore, e chiediamoci se ne valga la pena. Meglio: se ci sia qualcosa per cui valga talmente la pena da giustificarlo. L’esistenza, o la sopravvivenza di uno Stato? Il trionfo di una religione sull’altra? L’orgoglio di qualche vecchio leader politico che non vuole darla vinta alla sua controparte? I grandi giochini geopolitici delle grandi potenze che, da ambo le parti, osservano e manovrano a debita distanza dall’orrore? Le cricche di politici, intellettuali, giornalisti che non vedono l’ora che Israele e Palestina si scannino per regolare le loro beghe da cortile?
No, spiacenti. Nulla di tutto questo giustifica quel dolore. E anche volessimo fermarci alle motivazioni più nobili – dare ai Palestinesi uno Stato, garantire agli ebrei la sopravvivenza del proprio -, la mattanza del nemico, soprattutto quella dei civili, non avvicina di un millimetro al traguardo agognato. Anzi, semmai, lo allontana ancora di più. Perché odio chiama odio, vendetta chiama vendetta, orrore chiama orrore. E non sarà l’orrore a far nascere la Palestina o a far sopravvivere Israele. Al contrario, sono l’unica via possibile per far morire entrambi.
Per Israele, continuare nell’eccidio di Gaza significa alienarsi, prima o poi, ogni possibile sponda geopolitica, azzerare ogni sforzo diplomatico con Paesi del mondo musulmano che avevano mostrato propensione al dialogo e al mutuo riconoscimento, perdere ogni sostegno da parte delle opinioni pubbliche occidentali, buona parte delle quali non sanno nemmeno cosa sia l’antisemitismo, ma reagiscono di pancia all’orrore che viene loro mostrato.
Per Hamas – e più in generale per il popolo palestinese – perpetrare una guerra infinita finalizzata alla distruzione di Israele significa continuare a combattere una battaglia persa, costringendo i civili palestinesi a sopportare una repressione devastante. E aizza contro quegli stessi civili l’odio degli israeliani colpiti al cuore da attacchi terroristici come quello del 7 ottobre scorso, che fanno inorridire per brutalità ed efferatezza.
Dire come ha fatto il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres che questa spirale d’odio non ha origine nel vuoto è sacrosanto e tautologico. Ma ancor più sacrosanto è smettere di chiedersi da dove si sia originata e cominciare a occuparsi di come fermare quella spirale. A cominciare da ora. Cessando il fuoco. Risparmiando i civili. Rimettendo l’umanità, per una volta, sopra la geopolitica, la religione, la ragion di Stato, la vendetta.