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Conflitto Israelo-Palestinese

Caritas: “Inutile discutere su chi ha ragione, ora a Gaza situazione straziante, una tragedia immane”

Danilo Feliciangeli, responsabile di Caritas Italiana per le attività per il Medio Oriente: “La priorità è arrivare quanto prima a una tregua, aprire corridoi umanitari e iniziare un dialogo di pace. Di fronte al dramma che si sta consumando in queste settimane è inutile e dannoso discutere di ragioni e torti”.
A cura di Davide Falcioni
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"La priorità è arrivare quanto prima a una tregua e iniziare un dialogo di pace. Ci opponiamo a propagande e strumentalizzazioni, da qualsiasi parte arrivino, e pensiamo che di fronte al dramma che si sta consumando in queste settimane sia persino inutile e dannoso discutere di ragioni e torti. L'unica necessità, adesso, è arrivare a un cessate il fuoco e aprire corridoi umanitari". A dirlo, intervistato da Fanpage.it, Danilo Feliciangeli, responsabile di Caritas Italiana per le attività per il Medio Oriente. A quasi tre settimane dagli attacchi di Hamas e dall'inizio della rappresaglia israeliana nella Striscia di Gaza, il funzionario dell’organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana descrive una situazione straziante per 2,3 milioni di residenti nell'enclave palestinese, un luogo in cui sono state bombardate anche scuole, ospedali, ambulanze e – una settimana fa – la chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, che dava rifugio a oltre 400 civili. "Tra loro non c'erano terroristi né fiancheggiatori di Hamas. Erano quasi tutti cristiani, credevano che in una chiesa sarebbero stati al sicuro".

Danilo Feliciangeli, incaricato di Caritas Italiana per le attività per il Medio Oriente
Danilo Feliciangeli, incaricato di Caritas Italiana per le attività per il Medio Oriente

Partiamo da quello che è accaduto una settimana fa, quando un missile ha colpito una sala adiacente alla chiesa greco-ortodossa di San Porfirio facendo strage di civili. Tra le vittime anche un’operatrice della Caritas di Gerusalemme, suo marito e la figlia neonata. A una settimana di distanza cosa sapete di quella carneficina?

Un missile presumibilmente israeliano – ma su questo non c'è al momento nessuna certezza, e chiediamo che venga condotta un'indagine indipendente – ha colpito il salone adiacente la chiesa ortodossa di San Porfirio, che in quel momento dava riparo a 411 persone, prevalentemente cristiane che lì credevano di aver trovato un luogo sicuro. Tra loro non c'erano terroristi, né fiancheggiatori di Hamas, ma si trattava di uomini, donne e bambini inermi. Insieme a queste persone c'erano anche cinque membri della Caritas di Gerusalemme e le loro famiglie. Oltre a cercare un rifugio dalle bombe, i nostri colleghi si davano da fare, come membri della Chiesa Cattolica della Sacra Famiglia, fornendo assistenza agli altri rifugiati di San Porfirio: distribuivano generi di prima necessità, svolgevano attività di animazione per i bambini e fornivano un importante servizio di supporto psicologico. Improvvisamente un missile ha colpito un salone che accoglieva 83 dei 411 profughi e tra le 17 vittime è morta anche la "nostra" Viola Al ‘AMash.

Ci racconta chi era questa donna?

Era una ragazza di 26 anni e lavorava come tecnico di laboratorio in una clinica gestita dalla Caritas di Gerusalemme a Gaza City. Insieme a lei sono morti il marito, il figlioletto, la sorella e i suoi due figli.

L’attacco di giovedì scorso dimostra che neppure i siti cristiani sono al sicuro dai raid. C'è un motivo, secondo voi? O si è trattato di un incidente?

Vogliamo pensare che non sia stato un attacco mirato, bensì di un incidente purtroppo inevitabile quando si bombarda incessantemente il luogo più densamente popolato del mondo, una "prigione a cielo aperto" da cui non c'è via di scampo e in cui vivono 2,3 milioni di persone. In queste settimane sono state già colpite scuole, ospedali e moschee. Vogliamo sperare che la chiesa di San Porfirio non sia stata deliberatamente colpita; d'altro canto non vi erano obiettivi bellici, ma solo civili disarmati.

In altre occasioni sono state prese di mira strutture, beni o operatori della Caritas?

Non direttamente della Caritas. Sono state però colpite scuole gestite dal patriarcato latino. Per fortuna per il momento non è stata bombardata la clinica di Caritas Gerusalemme che si trova a Gaza City e non sono state colpite neppure le nostre cinque ambulanze.

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La Caritas ha il compito di promuovere la testimonianza della carità in tutto il mondo. Qual è il vostro lavoro a Gaza? 

Prima della guerra garantivamo assistenza sanitaria con una piccola clinica dove effettuavamo attività diagnostica e distribuzione di terapie ai pazienti, il tutto a titolo assolutamente gratuito. Inoltre avevamo cinque equipe mobili che intervenivano nei frequenti scontri tra palestinesi ed israeliani. In questa fase tutte nostre attività sono sospese perché non sussistono le condizioni minime di sicurezza per i membri del nostro staff. I nostri operatori sono sfollati e – nei centri in cui hanno trovato riparo – collaborano nella gestione delle accoglienze grazie all'aiuto fornito da Caritas Gerusalemme. Inoltre garantiamo assistenza psicologica da remoto a chiunque abbia bisogno di aiuto.

Cosa vi riferiscono i vostri operatori dai rifugi della Striscia di Gaza?

Stanno emergendo storie strazianti anche tra i nostri operatori sul campo. Un collega ci diceva che la sua unica speranza è quella di morire prima di sua moglie e dei suoi figli, perché non riuscirebbe a sopportare il peso di perderli e sopravvivere. Un'altra collega, una dottoressa, ci ha riferito di essersi separata dal resto dei suoi cari: lei è sfollata al sud di Gaza con due figli, il marito è rimasto a Gaza City con un altro figlio e i genitori. Così facendo, sperano di ridurre il rischio di totale estinzione della loro famiglia. Il loro è stato un addio, non sanno se riusciranno mai a rivedersi. Il livello di disperazione è questo: è una tragedia immane.

I membri della Caritas hanno lasciato il nord di Gaza, come indicato da Israele, o hanno deciso di restare lì?

La maggior parte degli operatori della Caritas e dei fedeli afferenti alla parrocchia della Sacra Famiglia sono rimasti a Gaza City, in un quartiere in cui sorge anche la nostra clinica. I nostri colleghi vogliono continuare a fornire assistenza umanitaria, laddove possibile, ma di base la loro è una scelta morale: non vogliono abbandonare le loro case, si rifiutano di pensare che il bombardamento di cliniche, scuole, chiese e abitazioni sia inevitabile.

I raid sulla Striscia di Gaza proseguono senza sosta da quasi tre settimane. Cosa chiede la Caritas alla comunità internazionale?

La priorità è arrivare quanto prima a una tregua e iniziare un dialogo di pace. Ci opponiamo a propagande e strumentalizzazioni, da qualsiasi parte arrivino, e pensiamo che di fronte al dramma che si sta consumando in queste settimane sia persino inutile e dannoso discutere di ragioni e torti. L'unica necessità adesso è arrivare a un cessate il fuoco e aprire corridoi umanitari.

Se si arriverà a una tregua quali interventi farete a Gaza?

Abbiamo lanciato una raccolta fondi, sarà indispensabile per poter tornare operativi non appena cesseranno i bombardamenti e ci saranno minime condizioni di sicurezza. Forniremo assistenza sanitaria, psicologica, alimentare ed economica con il coordinamento Caritas Gerusalemme, che ha una lunga esperienza di lavoro a Gaza, in particolare nel settore sanitario, a partire dalla guerra del luglio 2014, ed è in grado di offrire assistenza ad un numero stimato di almeno 100mila beneficiari. Al tempo stesso si sta valutando la possibilità di lanciare un più ampio piano di interventi, che comprenda anche il resto dei Territori Palestinesi Occupati e Israele, attraverso le parrocchie cattoliche. Il piano potrebbe comprendere attività di sostegno psicosociale e sostegno economico per le famiglie più vulnerabili.

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